Due o tre cose che mi hanno insegnato. Quattro scrittrici dimenticate 2/4

da | Mag 7, 2014 | Senza categoria

Gianna Manzini aveva un gatto. Un bel persiano grigio, che si chiamava Nuvolao e tornava spesso nella corrispondenza privata e nei romanzi dell’autrice, eternamente affollati di bestie. Gianna Manzini aveva anche un compagno (il grande Enrico Falqui) e, prima di lui, aveva avuto un marito (Bruno Fallaci, all’epoca responsabile della terza pagina della Nazione). Era pistoiese, ma aveva vissuto a Firenze e poi a Roma, in quel quartiere borghesissimo e un poco snob – almeno all’epoca, quando ad affollare i meravigliosi attici erano le signore bene di Roma, e non le moderne baby prostitute in sottoscala – che prende il nome di Parioli.

Esordì a trentuno anni con un romanzo dal titolo romantico che poi tanto romantico non era. Il libro si chiamava Tempo Innamorato, e venne pubblicato dai tipi di Corbaccio – che, nonostante il catalogo moderno, ha o una degna tradizione – nel 1927. L’ambiente fiorentino si surriscaldò, la critica lo accolse con entusiasmo e numerose furono le attenzioni di grandi come André Gide o Valery Larbaud – che, traslati all’epoca attuale dove gli intellettuali hanno tutti abdicato, potremmo riconoscere nei nostri Alessandro Baricco o, addirittura, in Erri de Luca.
Dopo Tempo Innamorato, cominciò a scrivere su Solaria, e il suo nome di scrittrice – dalle ossessioni famigliari declinate nella provincia e nel complicato rapporto con il padre, e soprattutto dalla prosa complessa e poco incline al compromesso con il lettore – prese a circolare nel maschilista mondo letterario dell’epoca, nel quale le donne potevano al massimo scrivere romanzetti rosa o raccontare di moda e costume.

In effetti, di costume e di moda Gianna Manzini scrisse, ma più per necessità – in fondo i conti a fine mese dobbiamo farli tornare tutti, e adesso come allora le riviste e i quotidiani erano ossessionati dal dare un allure critica e intellettuale a un mondo che, di per sé, queste caratteristiche già possiede (il problema è che nessuno vuole notarlo). Si firmava con lo pseudonimo di Vanessa, nome di altri tempi che rimanda a vestiti color pastello e a case sul lago, grandi occhi verdi e capelli lisci, sopra il seno, tirati indietro con un foulard.
“L’hanno dimenticata – mi spiega la studiosa Sarah Sivieri, che le ha dedicato il bel libro Scacciata dal Paradiso pubblicata dalla piccola casa editrice marchigiana Hacca, nel quale sono racchiusi alcuni scritti pungenti e irriverenti sui tempi e i costumi – perché non si faceva perdonare. Non cercava di compiacere gli altri. E poi la sua prosa è complicata”. Gianna Manzini, insomma, era una che a leggere i midcult che spopolano sulle nostre bancarelle o nei nostri supermarket all’ingrosso – potremmo definire librerie, se non per i classici, i luoghi deputati adesso alla vendita di volumi? – sarebbe svenuta o, più probabilmente, direttamente morta. Sarebbe inorridita, lei che aveva scritto quello splendido romanzo che è Ritratto in piedi – dedicato al padre-simbolo, l’anarchico Giuseppe Manzini – o La Sparviera cui protagonista era la tosse che non la lasciava mai libera, e di cui amava prendersi gioco.
Raccontò la realtà, eppure nessuno adesso ricorda i suoi romanzi che all’epoca le valsero gli apprezzamenti dei vari Montale e Vittorini; ed è piuttosto deprimente che ora la sua opera venga ripubblicata, ciclicamente questo va detto, da un sottobosco di case editrici dalla pessima distribuzione e dalla totale inettitudine promozionale. Ma in vita Gianna Manzini scrisse, e scrisse; vinse tanti premi ed ebbe numerosi riconoscimenti, eppure tutti a ricordarla per il suo aspetto fisico e la sua eleganza (non che questo sia negativo, però…) che dominano adesso sulla sua pregiatissima opera.
“Era una signora sempre elegante” ricorda Dacia Maraini. “Elegantissima” sottolinea Lorenza Trucchi, novant’anni e in agenda ancora tutti i nomi – per la maggior parte defunti – della Roma che conta. “Ci teneva a essere sempre in ordine: la borsetta in tinta con le scarpe, i capelli sempre perfetti, il trucco giusto” continua Dacia Maraini. E, ancora, la Trucchi, in questo divertente gioco di rimandi a posteriori: “Aveva gusto, non c’è altro da dire”.

Da dire ci sarebbe anche questa bella storia che mi racconta Dacia Maraini: “Una volta Elsa Morante mi raccontò che Gianna l’aveva chiamata dicendo: ho un regalo per te. Elsa pensava a un pensiero, a una scatola di cioccolatini, e invece Gianna le disse: ecco, Elsa, ti dono questo raggio di sole che adesso entra dalla mia finestra. Lei lo raccontava sempre, per dire che animo era”.

Una cosa romantica che sfiora soltanto (i rari) animi gentili. In fondo se una cosa Gianna Manzini me l’ha insegnata – oltre alla straordinaria, inimitabile, roccambolesca, capacità scrittoria – è che alla fine dei giochi l’aspetto esteriore e la capacità di coordinamento scarpe/borsa vale molto di più di tutto il resto. Scrittrici – e scrittori, ça va sans dire – sono avvisati: per i posteri è meglio avere in curriculum un vestito azzeccato (e casomai documentato sui social network, a imperitura memoria) che un successo editoriale.

Annotazione tratta dal diario di Gianna Manzini conservato presso L’archivio del Novecento del Dipartimento di Studi Filologici, Linguistici e Letterari dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

7 maggio 1954

Fra poco dovrebbe venire Piovene per un’intervista che comparirà su Epoca.
Vorrei arrivare a questi motivi costanti miei:
il sentimento della dignità dello scrittore. L’errore che molti compiono per “distinguersi” fino a rasentare la caricatura e a soffocare la personalità. È un differenziarsi ossessivo ai danni della dignità. Veramente originale è invece ciò che è originario, comune a tutti, umano.
Il compito dello scrittore non consiste nel differenziarsi ma nell’intensificare la vita propria, allargando la comprensione di quella altrui.
Dato questo mio atteggiamento non finisco di stupirmi quando mi si dice che io scrivo per pochi.
E questo stupore aumenta per il fatto che io, diciamo così, “intellettuale” non ho mai sentito nel non intellettuale l’”altro”. Io non sento che il prossimo e mi sembra che questa dissonanza innegabile tra l’intellettuale e il non intellettuale sia dovuta più che a una discrepanza integrale, alla maniera che ha di solito l’intellettuale di trattare il prossimo. Si dice che la novità offende, che l’intelligenza offende. Va bene; ma ad offendere non sarà piuttosto il modo si vuol far valere o semplicemente presentare questa novità? E cioè un modo di guardarsi intorno?
Per l’intellettuale, o forse più precisamente per gli artisti, tutti i giorni nascon festivi perché lavorare è una festa: e lui lavora sempre, salga in autobus o faccia la fila a uno sportello della posta, vede, annota tra sé e sé, si rallegra di capire, capitalizza.
Perché non sentire questo enorme privilegio con un tantino di benevolenza verso il prossimo? Irradiando sorriso, ma un sorriso facile, chiaro, comunicativo? Ecco qua, io guardo per esempio un animale e lo capisco, in modo che lo spettatore frettoloso è come se glielo regalassi; quasi non si era accorto che esisteva: ora se ne impossessa, lo fa suo; e questo gli dà un allegrezza che diventa la forma più vivace e più libera della gratitudine: tutto ciò non è un vincolo, un bel vincolo fra me e il non intellettuale o il lettore comune?

 

Il primo articolo di Flavia Piccinni dedicato alle scrittrici dimenticate è qui.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).