Dieci domande – Leonardo Colombati

da | Nov 7, 2015 | Senza categoria

Perché ha cominciato a scrivere? C’è un’immagine nella sua memoria che ricollega al momento in cui ha deciso di voler diventare scrittore?

Il mio primo rapporto con la letteratura non è stato da lettore ma da alpinista. Non andavo ancora alle elementari quando, per la gioia dei miei genitori, presi l’abitudine di arrampicarmi su una grande libreria che andava dal pavimento al soffitto della nostra prima casa. Ancora oggi, penso ad alcuni libri come a costole colorate disposte in una serie di ripide scaffalature: La cittadella di Cronin è una striscia turchese, Mosca sulla vodka è stondata e violetta… Il mio Everest era Il dono di Humboldt, la cui costola cilestrina sporgeva leggermente dallo scaffale più in alto a sinistra. Una volta, nell’inutile tentativo di non cadere, mi ci aggrappai trascinandolo a terra insieme a me. Sulla copertina c’era la nuvola di un fumetto con il disegno di cinque seni femminili dall’aureola gialla e il capezzolo rosso – un’immagine che ancora oggi rivedo con gli occhi di un perplesso me stesso di cinque anni.

C’era anche quel librone bianco della Mondadori, Io, Topolino, con una storia che s’intitolava Topolino giornalista: alcuni gangster prendevano di mira «L’Eco del Mondo», un giornale il cui unico direttore, redattore, grafico e stampatore – un po’ à la Dickens – era proprio Mickey Mouse. Mi piacque così tanto che iniziai a fare anch’io un giornale con quella stessa testata (la prima “o” di mondo l’avevo disegnata come un globo solcato da paralleli e meridiani). Usavo una vecchia Olivetti Studio 44 che mio nonno Celio mi aveva portato da Firenze e ritagliavo le foto dai settimanali. Poi, quando per i miei dieci anni mio padre mi regalò una stupenda edizione del Tom Jones della Garzanti, con la copertina di tela beige, e ho iniziato a leggere le avventure del trovatello, be’, come avrei potuto resistere al potere seduttivo della letteratura? È in quel momento che sono nati il mio amore adulto per i libri e la voglia di scriverne di miei: all’inizio ho provato con qualche verso, poi con prose descrittive, plagi da scene tratte da Fielding, da Manzoni e da Buzzati…

Perché ho cominciato a farlo? Per seguire il consiglio iscritto nel tempio di Apollo a Delfi: «conosci te stesso». Si scrivono libri come investigazioni attorno all’io che ci è sconosciuto. Scrivere, dopo tutto, è fare filosofia. Il filosofo è colui che “ama la sapienza”. E la sapienza è uno stato di perfezione nell’essere e nella conoscenza, una perfezione che al suo massimo può essere soltanto divina. Ecco perché la religione greca finisce col suo vero dio: il Saggio. Ed ecco perché sempre con lo stesso vero dio – il Saggio – finisce la letteratura.

Ci racconti il suo rapporto con la scrittura e come è cambiato nel tempo. Cosa significa scrivere oggi, e cosa significava agli inizi? Cos’è rimasto, cos’ha perduto, e cos’ha guadagnato?

Leggere e scrivere sono due attività che ho sempre associato all’avventura. Fare esperienza della letteratura significa entrare dentro le strampalate storie di Pippi Calzelunghe, palpitare per le sorti di Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, correre dietro a Topolino nel paese dei califfi o a Tintin sulle montagne di cristallo in Tibet, innamorarsi dell’incantevole Sophia Western e offendersi con Tom Jones perché invece di rimanere fedele all’amore per lei finisce sempre a letto con qualche puttana nelle taverne del Somerset; e poi, marcire assieme a Fabrizio Del Dongo nella Torre Farnese, visitare lo spazio cosmicomico di Qfwfq, osservare la battaglia di Borodinò attraverso gli occhi di Pierre Bezuchov… Anche quando scrivo, cerco quello che non so di me stesso e del mondo che mi circonda. Vado all’avventura. Non ho mai approvato il precetto secondo cui bisogna parlare solo di quello che si conosce. Io leggo non per riconoscermi in un personaggio o in una situazione, non leggo per dire: «è vero, è capitato anche a me», ma per andare sulla luna a cavallo di una palla di cannone o attraversare su un ponticello malfermo lo stagno di pece bollente nella quinta bolgia dell’inferno.

È lo stesso quando scrivo. E questa cosa è immutabile: è così da quando ero un bambino. In questo senso, non ho perduto e non ho guadagnato nulla, invecchiando.

Qual è il suo pubblico ideale? A che lettore pensa quando scrive?

Il mio lettore ideale sono io. Quale libro mi piacerebbe leggere? Questa è la domanda da cui parto prima di progettare un romanzo. Non sento alcuna responsabilità nei confronti del pubblico.

Non pretendo, però, che questa mia prospettiva nei confronti del lettore sia l’unica a essere valida. Immagino che Puskin, quando rosicchiava la penna in attesa di una rima, pensasse ai salotti di Pietroburgo con tutte quelle adorabili principessine che aveva dovuto abbandonare negli anni del confino. La platea di Tolstoj era invece tutta la Russia, forse l’umanità intera, che lui intendeva sottomettere ed educare come fa un dio o un condottiero. A ottant’anni era famoso come Alessandro Magno. A novantadue non ne poteva più, e quando il mondo lo andò a ripescare nella stazioncina ferroviaria di Astapovo, le sue ultime parole furono: «Svignarsela! Bisogna svignarsela!». Provo a figurarmi la sterminata folla di lettori senza volto che sorvegliava Hemingway – l’Hemingway già “papa” del romanzo americano – mentre scriveva l’incipit di Per chi suona la campana. Dev’essere un’esperienza capace di paralizzarti.

I lettori possono essere uno solo, come nel caso di Kafka, che scrisse tutti i suoi racconti e i suoi tre romanzi unicamente per il «mondo enorme» che diceva di avere in testa, e chiese a Max Brod di distruggere tutto ciò che di scritto avrebbe lasciato dietro di sé. Manzoni di lettori pensava di averne venticinque, quelli di Agatha Christie hanno comprato due miliardi di copie dei suoi gialli. A proposito di gialli, quando ero un ragazzo mi ero messo in testa di scriverne uno in cui l’assassino, alla fine, è proprio il lettore.

Che relazione c’è tra la scrittura e la società, con le sue influenze politiche e culturali? E come convivono questi aspetti nella sua produzione letteraria?

La scrittura è in relazione con l’inconscio, con la fatica, con l’amore, con l’istruzione, con le convinzioni politiche e religiose, con il senso di colpa, con la vanità, la fame e la sete, il vento, i colori, il gusto. Tutto m’influenza.

Detto questo, i romanzieri che si considerano uno strumento capace di cambiare la società, di solito sono pessimi scrittori e se ci provassero sarebbero anche dei pessimi politici. In Cos’è la letteratura, Sartre sostiene che «lo scrittore ha scelto di svelare il mondo e in particolare l’uomo agli altri uomini, perché questi assumano di fronte all’oggetto così messo a nudo tutta la loro responsabilità». È una delle affermazioni più cretine che mi è mai capitato di leggere. Eppure, quanti scrittori engagées gli sono andati dietro! Quasi sempre con risultati eclatanti sul momento, ma poco durevoli. Per dirla con Cardarelli: «L’epoca se ne compiace, ma il tempo non sa che farsene».

In che misura gli incontri (con altri scrittori, poeti, intellettuali) hanno influito nella sua poetica?

Fino a quando non ho pubblicato il mio primo romanzo, i miei incontri con scrittori, poeti e intellettuali sono stati solo virtuali. Poi, da quando sono entrato a far parte della comunità degli scrittori, mi è toccato di conoscerne tanti: dalle brillanti promesse ai venerati maestri, passando per una certa quantità, inevitabile, di soliti stronzi. È facile sparare sulla categoria: tutti gli scrittori, me compreso, sono tipi vanitosi, permalosi, egocentrici, invidiosi, ipocriti e meschini. Chi più chi meno. Detto questo, alcuni dei miei migliori amici sono scrittori, ormai. E influiscono, certo che influiscono su quello che leggo e scrivo. Come io influisco – credo – su di loro.

Quali autori l’hanno formata maggiormente e come è arrivato a loro?

In ordine di apparizione sul mio comodino, questi sono gli autori, non necessariamente i più amati ma quelli che hanno avuto un impatto decisivo su ciò che ho scritto: Fielding, Lovecraft, Borges, Garcia Marquez, Harold Brodkey, Lawrence d’Arabia (I sette pilastri della saggezza) Yehoshua, il McEwan di Cani neri, Pynchon, Philip Roth, Gaddis, Nabokov, Bolaño (ma solo per I detective selvaggi), Dickens, Saul Bellow, Sebald, Cheever… L’autore a cui torno di continuo è Shakespeare. Rileggo compulsivamente Le mille e una notte, le avventure di Ulisse, Anna Karenina, Don Chisciotte, alcuni racconti di Salinger e le poesie di T.S. Eliot e Philip Larkin. E il poema di Milton. Spesso vado a rivedermi i numeri pirotecnici di Dickens: l’incipit di Casa desolata, il primo capitolo di Dombey e figlio, alcuni passaggi di Il nostro comune amico (pura avanguardia!). Uno dei periodi più goduriosi della mia vita di lettore – che avrà pure inciso in qualche modo su quello che scrivo – è stato quello in cui ho letto le memorie di Giacomo Casanova. Tra gli italiani, mi sono stati utili soprattutto Gadda e Soldati, ma anche romanzi come Ferito a morte di La Capria, Il quinto evangelio di Pomilio, in qualche modo anche Petrolio, come pure certe cose di Calvino e di Cristina Campo. Poi ci sono cinque libri di saggistica che sono le mie bibbie: La cabala di Gershom Scholem, La dea bianca di Robert Graves, I sonnambuli di Arthur Koestler, Il riccio e la volpe di Isaiah Berlin e il libro di George Steiner su Tolostoj e Dostoevskij. Ah, e anche lo studio di Kerény su Dioniso.

Sono arrivato a questi autori per le vie più diverse: il consiglio di un amico, una bella copertina… Non c’è mai niente di sistematico. È come con l’amore.

La storia è piena di libri rifiutati dalle case editrici e di libri che non sono stati immediatamente compresi dai lettori. Lei che rapporto ha con il rifiuto? E in che modo è cambiato nel tempo? Quanto conta, oggi, l’apprezzamento dell’opera nel suo approccio al testo, e che rapporto ha con il mercato?

Oggi mi rendo conto di quanto sono stato folle e fortunato al tempo stesso con il mio primo romanzo. Ci ho messo dieci anni a scriverlo. Quando l’ho finito, non conoscendo anima viva nell’editoria, ho stampato il libro e l’ho spedito a quindici case editrici a caso. In tre mi hanno risposto che volevano pubblicarlo. Non riesco a pensare a cosa sarebbe successo se dopo dieci anni di fatica… Come avrei reagito all’incubo dell’inedito? Sono felice di non averlo dovuto scoprire.

Quanto al mio rapporto con il mercato, i miei numeri sono talmente piccoli che tra me e il mercato c’è una sorta di patto implicito: io non rompo le scatole a lui e non le rompe a me.

Che rapporto ha con il mondo letterario? Esiste ancora un luogo ideale di incontro/scontro tra autori?

Mi piace andare a cena con amici scrittori. D’altronde, mi piace andare a cena con chiunque. Ultimamente mi sono messo a dieta, così gli incontri/scontri con il mondo letterario sono diminuiti. Devo dire, però, che gli incontri più proficui continuano a essere quelli con guelfi in esilio a Verona, capocomici del Lord ciambellano e russi morti prima della deposizione dello zar. Hanno molte cose interessanti da dire e il cibo in tavola è tutto per te.

In che stato si trova la letteratura italiana oggi? Vede delle mancanze rispetto al passato, trova che ci siano delle fioriture interessanti?

La mia adolescenza è coincisa con gli anni Ottanta, un periodo in cui in Italia sono stati scritti pochi romanzi davvero buoni (così su due piedi mi vengono in mente solo Lo stadio di Wimbledon di Del Giudice e Seminario sulla gioventù di Busi). Quando ho iniziato a pubblicare io, a metà degli anni Duemila, c’era un gran fermento: Pincio, Genna, Piperno, Lagioia, Desiati, Trevi, Wu Ming, Saviano… Ancora oggi, mi sembra che la narrativa italiana non se la passi poi così male, anche se non vedo più tanta voglia da parte degli editori di raccogliere nuove sfide, di rischiare con le sperimentazioni.

E per finire, un gioco: se potesse scegliere solo tre libri da consigliare, quali sarebbero?

I tre libri da portare sull’isola deserta? Dico l’Odissea per la poesia, l’in-folio shakespeariano con tutte le sue commedie, tragedie e drammi storici, e Anna Karenina, che è il miglior romanzo mai scritto.

 

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).