Diario minimo dei libri che mi arrivano per posta: la coscienza e il romanzo

da | Lug 30, 2014 | Senza categoria

“’Noam Chomsky, per esempio, ha detto: ‘È decisamente possibile … che si imparerà sempre di più dalla vita dell’uomo e sulla sua personalità dai romanzi che non dalla psicologia scientifica’. Il motivo sta nel fatto che la scienza cerca di formulare leggi esplicative generali che si applicano universalmente, leggi che erano in funzione prima di essere scoperte, e che presto o tardi qualcuno avrebbe scoperto. Le opere di letteratura descrivono sotto forma di narrazione la solita specificità dell’esperienza personale, che è sempre unica, perché ognuno di noi ha una propria, più o meno diversa, storia personale, che modifica ogni nuova esperienza; e la creazione di testi letterari riassume questa unicità (vale a dire Emma di Jane Austen, per esempio, non avrebbe potuto essere scritto da nessun altro, e non sarà mai scritto un’altra volta da nessun altro, mentre un esperimento che dimostri la seconda legge della termodinamica è, e dev’essere, ripetibile da qualsiasi scienziato capace)”.

Non so quanto abbia ragione, ma l’importante è porsi i dilemmi, no?

Penso a Stendhal.

Mi è appena arrivato per posta La coscienza e il romanzo di David Lodge, Bompiani. Come spesso accade per i grandi accademici e teorici della letteratura, Lodge non è il romanziere migliore del mondo, ma i suoi saggi riescono sempre a farti sedere in un angolo e pensare “ha senso la letteratura? Perché l’abbiamo trasformata nella nostra principale occupazione?” E questo (nelle giornate in cui possiamo permettercelo emotivamente), può avere i suoi effetti curativi e/o produttivi da commencement speech di una laurea americana dove (arricchiti da citazioni, semplicismo e infervoramento) alla fine tiriamo in aria i cappelli.

“Una ragione per cui la creazione letteraria continua ad affascinarci e sfugge ai nostri tentativi di spiegarla, è l’impossibilità, per così dire, di sorprendere noi stessi nell’atto della creazione. Non è come se a uno venisse in mente un’idea per una poesia, diciamo, e poi la esprimesse in parole. L’idea per quanto vaga e provvisoria, è già un concetto verbale, e il fatto di esprimerla con parole specifiche, più precise, la rende diversa da ciò che era. Ogni revisione non è formulare nuovamente lo stesso significato leggermente (o molto) diverso”.

Penso ad Arbasino.

Tolgo la copertina bianca con un libro aperto su sfondo bianco, che mi ricorda troppo il logo de ilmiolibro.it, e scopro che sotto c’è un’elegante e accademico accostamento tra grigio e azzurrino con effetti cromoterapeutici calmanti. Decido di lasciarlo così.

La font Bompiani – quel Bomfield creato appositamente per la casa editrice da Francesco Messina – è abbastanza morbidamente accogliente e non troppo rotondamente infantile e mi ricorda i testi gialli e arancioni di filosofia che compravo al liceo per abbandonarli a metà lettura. (Se non fosse che Lodge ha quell’ironia da alcolizzato british che sa tutto su Henry James inizierei a pensare alla Critica della ragion pura che non ho mai finito ma che tenevo sul comodino invece che continuare a sfogliare il libro).

“Il termine ‘critica’ comprende moltissimi modi di riflettere sulla letteratura, da quello più personale e informale a quello più pubblico e sistematico. Include l’attività stessa di leggere, poiché leggere un testo letterario è un processo di continua interpretazione e valutazione. La semplice decisione di procedere con la lettura di un romanzo o di una poesia fino alla fine, comporta un certo tipo di azione critica. In senso lato la critica è dunque, come osservò T.S. Eliot, ‘inevitabile come respirare’”.

Se nei primi due capitoli (La coscienza e il romanzo e La critica letteraria e la creazione letteraria) Lodge cerca di dirci “attraverso il romanzo arriviamo alla conoscenza dell’uomo e di noi stessi”, – forse, o forse sono io che amo solo Montaigne e vedo tutto coperto dalla sua aurea –  nei restanti otto ce lo dimostra analizzando e raccontando nel dettaglio le opere di determinati autori. Il mio occhio cade su Dickens, solo per il fatto che il capitolo si chiami Dickens il nostro contemporaneo e perché so già che dirà che è il più grande di tutti dopo il loro Shakespeare – secondo Lodge: Dickens “era un enterpreneur brillante oltre che un artista, spinto dai dolorosi ricordi di quando era povero e dall’eccitazione di far denaro mediante i propri sforzi”

“La celebrità non è la stessa cosa della fama. Vi furono scrittori inglese prima di Dickens che in vita divennero famosi – Samuel Richardson, il dottor Johnson, Lord Byron, per esempio. Ma essi non coltivarono o sfruttarono la loro fama, né questa assunse il controllo della loro intera vita come la celebrità spesso minaccia di fare. La celebrità porta con sé un certo collaborazionismo e una certa complicità da parte della persona coinvolta.  Può arrecare grandi gratificazioni materiali e soddisfazioni personali – ma a un costo, una specie di mercificazione di sé. Richiede condizioni che non esistevano prima dei notevoli progressi apportati dalla Rivoluzione Industriale […]. La parola stessa “celebrità” come nome concreto, applicato a una persona, entrò nel linguaggio solo a metà del diciannovesimo secolo. La prima citazione nell’Oxford English Dictionary della lingua inglese risale al 1849, l’anno in cui Dickens pubblicò il David Copperfield e divenne senza discussione lo scrittore più grande e popolare della sua epoca”.

Il settimo capitolo si chiama Henry James e il cinema. Vado su wikipedia a vedere quando è morto Henry James. 1916. Scopro che era pelato e grassoccio e me ne stupisco, forse perché nelle copertine dei suoi libri ci sono sempre e solo donne con la pelle bianca e vestiti di satin che ti immagini essere corteggiate da uomini secchi con cilindro e baffetti ramati e lunghi bastoni da passeggio. Il capitolo inizia così:

“La protagonista di Notting Hill, la fortunata commedia sentimentale del 1999, è una diva del cinema americano che si trasferisce in Inghilterra per girare un film. Che questo film nel film sia presentato come l’adattamento di un romanzo (non specificato) di Henry James, mostra con quanta furbizia Notting Hill tastasse il polso alla moda e al gusto culturale della fine del ventesimo secolo”.

(E che fine ha fatto Hugh Grant? Mi dimentico sempre che c’era anche Alec Baldwin in quel film. E che fine ha fatto Kim Basinger?)

“Il fatto che i romanzi di Henry James siano in gran voga presso i moderni cineasti è sia assurdo sia paradossale. È assurdo perché in tutta la sua carriera letteraria James desiderò ardentemente un gran successo sia popolare sia commerciale e non lo ottenne mai. I suoi romanzi non furono mai venduti in grandi quantità e il suo impegno per diventare drammaturgo finì, dopo un qualche tentativo, in un disastro, quando fu fischiato dal loggione alla prima di Guy Domville nel 1895, l’episodio più umiliante della sua carriera letteraria”.

Dopo aver passato in rassegna il capitolo su Philip Roth – dove si va in dettaglio sulle fissazioni dell’alter ego David Kepesh de Il professore di desiderio e Il seno – scorro con vertiginoso gusto l’indice analitico. Allen, Woody; Balzac, Honoré de e Nolte, Nick vengono menzionati lo stesso numero di volte: una; McEwan, Ian almeno quattro. Non cado nel facile pensiero della critica all’anglocentrismo (o albiocentrismo) e torno alle prime pagine del manuale di Lodge, innocente romanzocentrismo:

“La storia concepita come la somma totale delle vite umane individuali non è naturalmente conoscibile: i dati sono semplicemente troppi. La storiografia può sì fornirci resoconti selezionati di eventi in vite umane selezionate, ma quanto più scientifico è il suo metodo, quanto più scrupoloso nel basare tutte le sue asserzioni su testimonianze, tanto meno è in grado di rappresentare lo spessore di quegli eventi vissuti attraverso la coscienza. Questo, tuttavia, è qualcosa che può fare la letteratura narrativa, e specialmente il romanzo. Crea modelli narrativi di come sia ‘essere un essere umano’ che si muove attraverso il tempo e lo spazio. Cattura lo spessore degli avvenimenti accaduti mediante la retorica, e mostra il collegamento degli eventi attraverso i meccanismi dell’intreccio”.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).