Diario 2012

da | Mag 12, 2014 | Senza categoria

Mario Desiati – nello spazio che fu di Enzo Siciliano – ci racconta le sue giornate di febbraio 2012, tra una Roma imbiancata e impreparata, figli di immigrati e partite di serie D, poesie di Simoncelli, la visione di Diaz, i soldi nell’editoria, l’amianto e l’Ilva, Goffredo Fofi e i tweet di Veronesi.

03 febbraio 2012

Neve su Roma e neanche un grammo di sale per le strade. Forse per non urtare le ferite aperte di questa città. Ferite che sono di un intero paese.

Le polemiche avvolgono la figura del sindaco romano per- ché mancano lame e spargisale, ma pochi romani spalano la neve davanti alle loro case o addirittura dal tettuccio delle proprie auto che girano per la città seminando lastre di ghiaccio dopo le frenate.

Incontro alcuni protagonisti delle categorie in rivolta contro le liberalizzazioni del governo, tassisti, autotrasportatori, forconi (un movimento siciliano che si intitola con una parola che promette poco di buono) e allevatori, ne intervisto qualcuno per un pezzo. Mi spiegano con rabbia e disillusione che hanno perso il lavoro fisso, potere d’acquisto, pagano le multe sul latte in eccesso e il gasolio costa troppo. Nessuno mi parla però di figli, delle nuove generazioni, di chi verrà tra qualche anno.

Nel conflitto di classe, tra le tante cose terribili che ci ha lasciato in dote il marxismo c’era anche qualcosa di alto e nobile, un senso del futuro meno meschino di chi inneggia ad avere la benzina a un prezzo più basso, ma ben poco disposto a spalare la neve davanti al proprio portone.

 

10 febbraio

Impazza il dibattito sulla televisione di Stato. Servizio pubblico o corsa all’audience?

In queste pagine c’era Enzo.

Se sono qui, forse perché è tornato dalla morte per qualche giorno e farmi scrivere a casa sua. Enzo era sempre più preoccupato innanzi all’imbarbarimento di un’Italia ferita e soprattutto corrotta. In queste pagine ne dava conto, anche nei momenti più duri della sua vita, quando era diventato presidente della Rai e tra atroci pressioni politiche lasciò dopo aver mandato in onda in prima serata il Macbeth di Verdi su Rai1. (Sarebbe opportuno, per non dire civile, se qualcheduno dei politici che lo sostennero per poi isolarlo ripensasse a cosa è oggi la Rai e lo ricordassero.)

Il Diario di «Nuovi Argomenti» resta casa sua e ci entro in punta di piedi, o meglio vorrei entrarci in punta di piedi, ma come sempre è stato a casa Siciliano. Dopo un po’ di timidezza iniziavo a sentire l’accoglienza di Enzo, un senso di appartenenza e affetto sotto forma di un brivido, lo stesso che adesso ho mentre scrivo, ripensando al fatto che nel primo sedicesimo di «Nuovi Argomenti» c’era sempre odore di erba campestre e violacciocche, il profumo della campagna di Enzo e Flaminia al Vertano che puntualmente veniva verbalizzato in queste pagine assieme a minuscoli dettagli del quotidiano, il colore del cielo, il rumore della potatura, le evoluzioni della cagnetta Isotta nella campagna umbra.

 

11 febbraio

Caro E.

Sono passati sei anni da quando non ci sei più e ti confido che non riesco ad indignarmi degli italiani, forse perché ho molta fiducia nelle nuove generazioni, i figli degli immigrati che renderanno finalmente questo paese multietnico e non avranno paura di perdere nulla, con coraggio cambieranno e rivolteranno l’Italia come un calzino. E quando bloccheranno il paese lo faranno non per una multa o la benzina, ma per il diritto di cittadinanza.

Ti confido che nei tuoi Diari a volte la tua amarezza per il paese mi faceva sorridere, so l’obiezione che mi faresti «Non fare il letterato cinico, lascialo ai personaggi di Tom Wolfe o ai poeti che non valgono nulla». Ti supero questa volta a sinistra e per una volta non a destra come ho sempre fatto.

Devono ancora nascere ma saranno loro a rendere migliore questo paese. Penso a Yvan Sagnet, un ragazzo camerunense di 27 anni che questa estate ha mobilitato in una masseria di Nardò, decine di africani contro le paghe misere dei caporali.

Non riesco a indignarmi dell’Italia perché non mi sento italiano. Mesi fa Dacia, Giorgio, Raffaele e Arnaldo gli altri direttori di «Nuovi Argomenti» hanno proposto un questionario sull’Italia. Non ho mai risposto alle domande, lo faccio adesso, e rispondo alla più importante. «Lei si sente italiano?» No, per niente, mi sento martinese. Come quando sono allo stadio e canto «son martinese e me ne vanto». Forse è uno spirito che assomiglia alla frase di Fruttero morto in questi giorni che scriveva «L’unico mio empito comunitario è il tifo per la Juventus».

Capisco coloro che rispondono di sentirsi europei e coloro che rispondono di sentirsi italiani, ma non riesco proprio ad allontanarmi dall’origine e i piccoli miti della mia terra. A proposito di mito, mi viene in mente ciò che ne pensava Moravia del mito, che altro non è che tutto ciò che non si conosce ma di cui si afferma lo stesso l’esistenza. Non conosco, dunque invento.

C’era un poeta che amavi e si chiama Stefano Simoncelli, i ragazzi di Ancona, Marco Monina e Antonio Rizzo hanno pubblicato in Italic il suo ultimo libro. Terza copia del gelo.

Ti trascrivo questa poesia di Stefano. Come molti grandi poeti è appartato, senza risentimenti e con il terzo occhio che ci regala un frammento di realtà che prima non vedevamo.

Ho una stanchezza sconosciuta

infinita. La stessa, immagino,

che provavi anche tu

in tutto il corpo

«nei capelli
e perfino nei pensieri»

confidavi con un filo di voce.

È questo che ci unisce adesso? Questo

dolore fitto dentro le mani

che stringono l’aria?

È questo il nuovo modo di abbracciarci?

Ho pianto dopo aver letto questa poesia perché Stefano Simoncelli rintraccia anche nella stanchezza di una giornata di lavoro il segno della sua donna che oggi non c’è più. Mi si è aperta una voragine: chissà quanti segni ci lasciano nelle giornate le persone che sono morte, quanta sensibilità ci vuole per cercarli e individuarli. Anche a questo servono i poeti.

 

12 febbraio, pomeriggio.


Ho assistito al film Diaz di Daniele Vicari nella sala della International Recording del quartiere Monti. Una proiezione professionale per noi dipendenti della casa di produzione Fandango e per gli attori. Tra gli spettatori anche alcune vittime del massacro nella scuola genovese. Un inglese si è sentito male. Una donna ha pianto. Ho avuto anche io un lieve malore.

Per chi è stato pestato nella vita è una brutta sensazione assistere anche a un film del genere. Nel 1996 sette teppisti ruppero il vetro della mia macchina mentre ero in una zona oscura di campagna con una donna fidanzata con uno di loro. Fui pestato per un’ora. A Genova non dormii nella Diaz per puro caso (ero in un campeggio in collina). Ciò che mi sconvolse di quei giorni fu la vigliaccheria e la ferocia dei poliziotti contro le donne, picchiavano ragazze che sarebbero potute essere le loro figlie, le loro mogli, le loro madri. Senza pietà non c’è salvezza, la pietà è clemenza e devozione. Per chi non ha pietà provo pena, perché il destino non premia mai gli spietati ma ne restituisce i colpi con un bilanciere infallibile.

 

13 febbraio Roma, quartiere Trieste

Lunedì in casa editrice. Mansarda della Fandango Libri, con le colleghe stiamo studiando il preventivo dei libri che stamperemo ad aprile. Due euro la semplice stampa, due euro di diritti, tre euro di traduzione, cinque per i costi di promozione e distribuzione, quanto resta all’editore e alla gente che ci lavora? Se un libro costa meno di dodici euro: la somma fa zero.

Valentino Bompiani in questi mesi viene citato continuamente. «Cos’è un editore? Uno che scrive il libri? No. Uno che li stampa? No. Uno che li distribuisce? No. Uno che li vende? No. Tutto il resto è l’editore.» Ed è proprio in quel «tutto il resto» che oggi si gioca la partita dell’esistenza di questa figura professionale.

14 febbraio, mattina presto, chiamata di un numero sconosciuto

«Pronto cosa ne pensa del successo dei libri con Tiffany nel titolo?»

«Mi può fare questa domanda tra dieci anni?»

«Perché?»

«Perché parleremo di Truman Capote.»

 

15 febbraio Roma, quartiere Trieste


Leggo Strana gente (Donzelli) di Goffredo Fofi. È un diario che tenne nel 1960 mentre era studente della scuola di assistenti sociali e lavorava con Danilo Dolci nelle campagne sicule di Partinico. È un diario tra nord e sud che racconta un punto di vista inedito, sconosciuto, lontano dalle testimonianze che mostrano la congiuntura di quegli anni, il passaggio della nostra società da contadina a industriale, ma che è sempre stata vista da uno sguardo comunista o democristiano. Fofi partiva da un insegnamento che possiamo riassumere nel motto di Capitini «Non accetto». Ribellarsi per non accettare lo status quo, partire da un’analisi critica della realtà. In queste pagine c’è la narrazione di un fallimento, il progetto di un connubio tra nord e sud che non c’è mai stato, populismo, meridionalismo e altri ismi che nei giorni dei forconi e delle leghe fanno impressione per la loro attualità.

Fofi aveva 23 anni quando scrive le pagine di questo libro, racconta della morte di Coppi, di minuscoli episodi sentimentali, ma anche dei libri che legge come un annuario della Mondadori datato 1941 in cui non si parla di guerra e che dunque gli fa sbottare «gli intellettuali sono sempre uguali, con i problemi che c’erano allora parlano sempre d’altro».

 

17 febbraio Tribunale di Taranto

Sono passati quattro giorni dalla lettura della sentenza che punisce due magnati dell’Eternit. Milioni di danni di risarcimento e sedici anni di carcere che non sconteranno mai, 6.400 parti civili ammesse. Ma è solo una minima parte. Oggi a Taranto inizia il processo contro i vertici dell’Ilva e alcuni operai tarantini per protesta sono saliti su quei cavalcavia ricoperti di polvere e carbone.

C’è stato un momento toccante durante la lettura della sentenza del tribunale di Torino, quando il giudice Giuseppe Casalbore con tono fermo e serio ha letto una sterminata lista di nomi e cognomi. Erano le 6400 parti civili. Accanto a ognuno di quei nomi pronunciati dal giudice, in una lunga, commovente scansione, c’era la storia di una vittima e della sua famiglia, coloro che ne hanno scortato le sofferenze e curato il male. Spesso i familiari vengono in secondo piano quando si pensa ai malati, ma se ci sono malati, (e il mesotelioma è un male che consuma) ci sono anche parenti e amici che hanno avuto le vite cambiate.

Il popolo degli «amiantizzati» è enorme e senza elenchi definitivi: si va dal semplice operaio che ha lavorato per anni a contatto con i sacchi di fibrocemento, alla moglie e i figli che si sono ammalati perché le tute si impregnavano di polvere e venivano poi lavate in casa, seminando le particelle mortali su oggetti e pavimenti. Quanti bambini hanno giocato con quella polvere che perdeva il papà in casa, ma anche quanti uomini hanno respirato le esalazioni, per non parlare di quanti oggi in Italia non sanno di essere vicini a luoghi pericolosi, a discariche abusive in cui si smaltisce illecitamente il pericoloso materiale. Accanto ai nomi citati nella lunga lettura dal giudice Casalbore vorrei ricordare coloro che sono morti senza sapere di essersi ammalati per l’eternit, uomini e donne morti di mesotelioma e che compongono una sorte di immaginario monumento del Milite Ignoto d’amianto.

Purtroppo, per molti senza nome, la sentenza sarà solo un riconoscimento e un monito alle generazioni future sulla sicurezza del lavoro. Aggiungerei a questo il monito a un’altra silenziosa tragedia, quella di chi è partito ed è tornato malato per un sogno di vita migliore, per sé e i suoi figli.

 

19 febbraio Scampia (Napoli)

C’è un calcio che viene seguito da una setta simile ai club dei poeti estinti, gente che si ritira in luoghi pericolosi, rischiosi la cui felicità e vitalità è difficile da spiegare.

È il calcio delle serie minori un altro sport, ventidue uomini che sotto occhi non sempre attenti di arbitri arrivati da lontanissimo per dirigere battaglie dove si salta coi gomiti alti, ci si picchia nelle mischie, ci si minaccia di morte.

Ne ho viste molte, come Ruggiero Lauria – Martina anno 98 serie D, un campo di calcio dentro una conca di pietra, a mezzo metro dalle linee di campo, ovviamente di terra, ci sono rocce e muri alti una decina di metri, sopra le gradinate che danno l’impressione di essere più in un’arena dove si battono i cani, o dove si sfidavano i gladiatori, ma è solo una ex cava di pietra.

I calciatori che giocano qui sono molto diversi dai calciatori che si vedono in TV. Basti pensare al «come si prepara la partita» il modo in cui in gergo si fa capire che il clima nel quale si giocherà sarà un inferno. Quanto pelo sullo stomaco, quanta rudezza, quanto fegato ci vuole per giocare in certi campi. Lo vedo in faccia ai ragazzi del Martina, sulle loro gambe non depilate, piene di cicatrici, alle facce scavate, gli occhi neri, lo sguardo che non si abbassa mai. I più bravi non sono i migliori, ma i più coraggiosi, quelli che si fanno rispettare.

Oggi sono a Piscinola, un campo di calcio che si chiama «Dietro le vigne» (alle spalle di un terreno coltivato a rape e cavolfiori dove un uomo sta potando alcuni alberi), serie D, Campania CTL-Martina, i ‘guerrieri’, come si fanno chiamare i giocatori casalinghi, sono quasi tutti ragazzi cresciuti nei quartieri attorno a Piscinola, nomi che evocano la cronaca, e la politica: Scampia, Secondigliano. È una trasferta temuta, i campani l’hanno preparata bene. Lo stadio sono due tribunette di pietra che possono contenere una cinquantina di persone. Durante il riscaldamento cinque signori minacciano i giocatori del Martina chiamandoli per nome e cognome.

Da Martina sono venute una ventina di persone divise in cinque macchine. Sui gradini nei quali ci sistemiamo non c’è il massimo della sicurezza, pietre e una recinzione che divide dal campo. Se fossimo dei facinorosi sapremmo come fare disordini, tifiamo e un paio dei più esagitati di noi rispondono alle minacce che arrivano dall’altra parte del campo. Nel nostro settore c’è una vedetta, un ragazzo del posto che controlla la situazione, tra di noi oltre agli ultras martinesi ci sono anche i dirigenti del Martina e qualche procuratore dei calciatori in campo che ha preferito essere nella zona ospiti. L’arbitro è di Lodi e ha terrore a fischiare punizioni per il Martina, spesso mette il fischietto in bocca con il riflesso condizionato, ma non mette aria e lascia proseguire nonostante falli, calci e gomitate. «Portati il pannollino se te la fai sotto» urlano i nostri in dialetto a lui e al guardalinee.

«Non vi capisce, parlate italiano» suggerisce la vedetta.
 Il Martina riesce a non perdere nonostante un rigore inventato e il clima pesante. Dopo la partita ci sono le cariche, i lanci di pietre e bottiglie, le prime per intimidirci, le seconde per colpirci.
 «Nascondete le sciarpe» ci intima un poliziotto mentre usciamo dal campo. Nessuno lo ascolta. Sotto le parabole fitte, ma imprecise dei nemici nascosti dietro le macchine e dai vicoli attorno al campo, riusciamo a salire nelle auto e raggiungere la tangenziale. Alle spalle ci sono bagliori inquietanti perché la battaglia continua, qualcuno dei nostri ha risposto per tornare a Martina e battersi il petto, fare la parte del leone nei bar di viale della Libertà.

 

22 febbraio

Sandro Veronesi scrive un tweet «Vuoi scoprire che rimarrai figlio per sempre?» Leggi Vita e morte di un ingegnere.

Prima ne aveva scritto un altro. «Vuoi piangere figlio?» Leggi Vita e morte di un ingegnere.

Edoardo Albinati ha scritto un gioiello narrativo, cento cartelle che raccontano chi era suo padre, in realtà un modo per conoscere chi è davvero questo scrittore così fuori da ogni tipo di classificazione.

 

28 febbraio

Una nuvola nera ha coperto Taranto in seguito a un incendio nel tubificio. Il tribunale intanto ha acquisito una perizia di medici e chimici sui danni causati dalle immissioni nell’aria delle polveri del più grande complesso siderurgico. Scorro tra le migliaia di dichiarazioni di politici italiani del pomeriggio su mille cose disparate uno stralcio di parola su questo avvenimento.

 

29 febbraio

Il giorno dopo che la nuvola nera ci aveva bussato sulla spalla, nessuna notizia sui quotidiani nazionali.

Ha pianto un po’ il cuore perché l’Ilva non è una notizia regionale, ma una notizia nazionale, un luogo in cui si è giocata una parte importante dell’industrializzazione di questo paese e dunque della sua ricchezza per cui sono morti, a volte senza saperlo, uomini e donne a cui nessuno erigerà monumenti e strade per il contributo al nostro benessere.

Le statue imporporate dall’anidride solforosa e il monossido di carbonio, nel cimitero di San Brunone a quindici passi dall’Ilva, i terrazzi ricoperti di un mantello rosato nei quartieri di Tamburi, Paolo VI sono il monito a ciò che sta diventando questo pezzo di Italia; il mare e le campagne attorno al complesso siderurgico sono un maglio della catena alimentare che non finisce soltanto nella distesa fumigante della piana tarantina, ma passa qui e arriva nel resto d’Italia. A ognuno dei sopravvissuti spetta adesso ricordare e tatuarsi nell’anima almeno uno dei nomi di chi non è morto invano.

 

1 marzo

Incontro Yvan Sagnet, nel palazzo della CGIL sezione agricoltura.

Camerunense, studente di ingegneria ha scritto un breve saggio che racconta la sua esperienza di lotta contro il caporalato la scorsa estate a Nardò all’interno della Masseria Boncuri dove vivevano i braccianti stagionali.

Yvan è un ragazzo di 27 anni che partecipava alla raccolta del pomodoro per pagarsi gli studi universitari al politecnico di Torino. Arrivato in Italia nel 2007 da Douala, la seconda città del paese, aveva scelto l’Italia perché se ne era innamorato da bambino seguendo i Mondiali del ’90.

Nel racconto di Sagnet c’è un passaggio molto significativo, è quando descrive la presa di coscienza nel momento più critico, quando in mezzo alla fatica, alle minacce, alle difficoltà ambientali, un lavoro le cui privazioni sono raccontate nel fondamentale Uomini e caporali di Alessandro Leogrande, narra di alcuni caporali che iniziano a temerlo perché era uno studente universitario. Chi potrebbe pensare oggi di temere uno studente universitario? Nell’autorganizzazione e nello sciopero contro la riduzione in schiavitù, contro lo sfruttamento di essere pagati quattro euro e cinquanta a cassone si vedono i segnali del risveglio di una lotta per i propri diritti. I ragazzi africani che si uniscono per rivendicare giustizia si raccolgono attorno a Yvan e altri giovani che a fine giornata nella masseria parlano tra loro, si confrontano sui malanni causati dal lavorare al sole per ore, sui documenti che a volte i caporali trattengono (e un immigrato senza permesso di soggiorno in questo paese è l’uomo più indifeso che c’è).

Sulla pelle viva (DeriveApprodi 2012) ne ricostruisce le tappe fondamentali, racconta le implicazioni dello sciopero, mette in fila gli eventi e ci spiega come Nardò possa essere il passo ulteriore di un’Italia che diviene realmente multietnica, un paese di ventenni che vogliono cambiare le cose, che non hanno paura di perdere nulla perché sulla viva pelle hanno pro- vato le ingiustizie. Un paese molto diverso dai tempi del primo sciopero a Villa Literno tanti anni fa, ma non ancora del tutto cosciente, destinato a diventare multietnico e che nei ragazzi africani di Boncuri riserva le sue migliori speranze del futuro.

 

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).