Chi ben comincia e chi no – L’importanza dell’incipit / 2

da | Set 11, 2013 | Senza categoria

Un micromondo nel cosmo che si squadernerà, piccola o grande narrazione che sia. L’incipit come luogo di massima concentrazione di una promessa al lettore, fatta ancor prima di cominciare a scrivere; un collo di bottiglia, che si spera non ostacoli più di tanto il passaggio di tutto quel magma penetrato di responsabilità che si porta dietro ogni promessa da mantenere.

Massimo Arcangeli, linguista, critico letterario, docente universitario oltre che Responsabile scientifico del Progetto Lingua Italiana per la Società Dante Alighieri, analizza criticamente uno dei momenti chiave di ogni romanzo, l’incipit, pescando nel mare magnum della letteratura i più belli e i più brutti, i più o i meno significativi, i più o i meno riusciti, le partenze più magiche e quelle che tradiscono. Ecco la seconda puntata, su un titano come Pasolini e il suo Ragazzi di Vita, divisa in due parti.

1

Era una caldissima giornata di luglio. Il Riccetto che doveva farsi la prima comunione e la cresima, s’era alzato già alle cinque; ma mentre scendeva giù per via Donna Olimpia coi calzoni lunghi grigi e la camicetta bianca, piuttosto che un comunicando o un soldato di Gesù pareva un pischello quando se ne va acchittato pei lungoteveri a rimorchiare. Con una compagnia di maschi uguali a lui, tutti vestiti di bianco, scese giù alla chiesa della Divina Provvidenza, dove alle nove Don Pizzuto gli fece la comunione e alle undici il Vescovo lo cresimò. Il Riccetto però aveva una gran prescia di tagliare: da Monteverde giù alla stazione di Trastevere non si sentiva che un solo continuo rumore di macchine. Si sentivano i clacson e i motori che sprangavano su per le salite e le curve, empiendo la periferia già bruciata dal sole della prima mattina con un rombo assordante. Appena finito il sermoncino del Vescovo, Don Pizzuto e due tre chierici giovani portarono i ragazzi nel cortile del ricreatorio per fare le fotografie: il Vescovo camminava fra loro benedicendo i familiari dei ragazzi che s’inginocchiavano al suo passaggio. Il Riccetto si sentiva rodere, lì in mezzo, e si decise a piantare tutti: uscì per la chiesa vuota, ma sulla porta incontrò il compare che gli disse: «Aòh, addò vai?» «A casa vado,» fece il Riccetto, «tengo fame.» «Vie’ a casa mia, no, a fijo de na mignotta,» gli gridò dietro il compare, «che ce sta er pranzo ». Ma il Riccetto non lo filò per niente e corse via sull’asfalto che bolliva al sole. Tutta Roma era un solo rombo: solo lì su in alto, c’era silenzio, ma era carico come una mina. Il Riccetto s’andò a cambiare.

Da Monteverde Vecchio ai Granatieri la strada è corta: basta passare il Prato, e tagliare tra le palazzine in costruzione intorno al viale dei Quattro Venti: valanghe d’immondezza, case non ancora finite e già in rovina, grandi sterri fangosi, scarpate piene di zozzeria. Via Abate Ugone era a due passi. La folla giù dalle stradine quiete e asfaltate di Monteverde Vecchio, scendeva tutta in direzione dei Grattacieli: già si vedevano anche i camion, colonne senza fine, miste a camionette, motociclette, autoblinde. Il Riccetto s’imbarcò tra la folla che si buttava verso i magazzini.

 

Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita (1955)

 

Alcuni critici dell’opera narrativa pasoliniana “neorealista”, quando si tratti di esaminarne il dialogato, continuano a cadere nel tranello di un documentarismo ingannevole: non tengono conto della complessità di un personaggio che ha sposato il dialetto, nei dialoghi di Ragazzi di vita e di Una vita violenta (1959), senza per questo genuflettersi alla tirannia dell’oggettività del reale («Le cose non parlano: lasciar parlare le cose non significa nulla», dichiarò a “Nuovi Argomenti” nel 1959). Ma tant’è. Lo strumento di molta critica formalistica – linguistica o filologica – è ancora un anacronistico e quasi tenero specillo: insiste sulle piccole aree, con la pretesa di inciderle in profondità, ma non può oltrepassare il confine del piccolo appezzamento di terreno su cui è stato chiamato a intervenire. Bisognerebbe invece provvedersi di una macchina da presa, avvicinare ogni volta l’oggetto per potersene ogni volta allontanare. Soltanto così i troppo pieni (le costanti) e i troppo vuoti (le quasi assenze) si rivelano, nel caso del romanesco pasoliniano, per quel che rispettivamente sono: una legge spesso inapplicata, un ventaglio di eccezioni che manifestano piuttosto la natura di controleggi.

Ragazzi di vita, aperto su un’interpunzione sciatta e oralizzante («Il Riccetto che doveva farsi la prima comunione e la cresima, s’era alzato»; «solo lì su in alto, c’era silenzio»; «La folla giù dalle stradine quiete e asfaltate di Monteverde Vecchio, scendeva») che tornerà a materializzarsi («Saltando dalla soddisfazione e facendo i calcoli di quello che c’avrebbero guadagnato il Riccetto e Marcello presero la strada di Donna Olimpia»; «il Riccetto, addirittura si mise a rotolarsi per terra»; «Lì davanti al gradino dov’erano seduti i due compari, c’erano file di gente che andava pei fatti suoi»; «Scendette giù come un ladro al Ponte Bianco, ma come scendette, restò fermo»; «ma degli amici loro, che venivano da Monteverde Nuovo li fermarono»), presenta già nell’incipit un quadro perfettamente chiaro: da una parte il discorso diretto vincolato ai personaggi, che pare riprodotto in presa diretta; dall’altra l’indiretto libero dell’autore narrante, ibridato dagli inserti romaneschi. Di quest’ultimo, rispondendo (1960) a un lettore di “Vie nuove”, l’autore difese con stizza il marchio espressionistico:

 

Con Ragazzi di vita e Una vita violenta – che molti idioti credono frutto di un superficiale documentarismo – io mi sono messo sulla linea di Verga, di Joyce, di Gadda: e questo mi è costato un tremendo sforzo linguistico: altro che immediatezza documentaria. Rifare, mimare il «linguaggio interiore» di una persona è di una difficoltà atroce, aumentata dal fatto che, nel mio caso – come spesso nel caso di Gadda – la mia persona parlava e pensava in dialetto. Bisognava scendere al suo livello linguistico, usando direttamente il dialetto nei discorsi diretti, e usando una difficile contaminazione linguistica nel discorso indiretto: cioè in tutta la parte narrativa, poiché il mondo è sempre «come visto dal personaggio». Le stonature in questa operazione sono sempre a un pelo dalla scrittura: basta eccedere solo un minimo sia verso la lingua che verso il dialetto che il difficile amalgama si rompe, e addio stile.

 

Pasolini impugna il bisturi per resecare lembi di pelle da un tessuto linguistico romanesco di cui asporta perlopiù campioni lessicali. Come già nel nostro avvio di romanzo: pischello, acchittato, rimorchiare, prescia, tagliare (‘andar via, filarsela’), sprangavano (‘spingevano, ci davano dentro’), zozzeria; anche i maschi – seguiti a distanza dal sessualmente indifferenziato ragazzi – venano il quadro dei colori di un dialetto che è soltanto meno accusato: con maschi, a Roma, si può ancora oggi apostrofare un giovane sconosciuto che richiami la nostra attenzione per un qualche motivo.

La diluizione del quotidiano di un precariato esistenziale ai margini, in Ragazzi di vita e Una vita violenta, è anche stemperamento, nell’indiretto libero, della figuralità sottoproletaria dei personaggi. Il «silenzio carico come una mina» insiste sul loro stretto circondario, per la sostanza storica (nel primo capitolo di Ragazzi di vita l’estate del 1944) e per le forme attinte a un campionario di immagini elementari, molto numerose lungo il tragitto, che non superano il piccolo recinto della sopravvivenza materiale e di una realtà particellare fatta di animali e colori, oggetti comuni ed esperienze di un vissuto ordinario (tra giornali a fumetti e capatine al cinema, soprattutto western):

 

«s’alzarono e come un branco di pecore si spostarono»; «La cagna se ne stava tra le loro gambe, piccola come una zanzara, e zitta zitta»; «Si fece a fette la strada fino ai Cerchi, tutto solo come un cane»; «Ma lo Sgarone che cominciava a scocciarsi si agitava come una ciriola»; «Andarono giù verso Ponte Garibaldi come due lupi affamati»; «Il Tirillo alzò le braccia con una gran moina e si fece un caposotto all’angelo, allargando le gambe come un paperone»; «per primo partì il Monnezza, biondo come la paglia»; «il Riccetto andava avanti bianco come un cencio»; «“Mbè?” fece un giovane con la pelle nera come una padella»; «Il Riccetto non rispose niente; guardò il Caciotta, che, per la giannetta, aveva la faccia bianca e viola come una cipolla»; «“Come, no?” Fece il Cappellone con la bocca larga come una palanca»; «Il Lenzetta aprì le braccia: “Ma che voi parlà de Gesù Cristo e de la Madonna, co sta fame che t’aritrovi,“, fece, con una faccia ch’era una braciola»; «Alduccio gli diede una botta  e l’altro cadde come un sacco di patate nell’acqua»; «Stava per caderci dentro, e affogarci come un indiano nelle sabbie mobili; «“Lucian-na”, lei disse con voce strascicata, facendo la cucciolona come le ragazze dei giornaletti».

 

L’immaginario dei pischelli di Ragazzi di vita – il discorso si applica altresì all’altro romanzo – è però disturbato dalle continue irruzioni (linguistiche, retoriche, tematiche) in quel circondario, qui come in generale, dell’ingombrante autore:

 

Se ne stava lì, con una mano sprofondata in saccoccia, che pareva il figlio dello sceriffo, con le grosse labbra ombreggiate dalla peluria nera, e gli occhi lucidi e cupi come due cozze stillanti di limone;

 

Su tutto pesava l’odore di mele marce della varecchina, appiccicoso come una macchia d’olio che s’allargasse dalle strutture dello stabilimento – che pareva un ragno con le sue muraglie e i suoi serbatoi – giù per le scarpate dell’Aniene, l’asfalto della strada e le stoppie bruciate da un fuoco che non si distingueva, tanto era forte la luce del sole.

 

Il dettagliamento di comparazioni e similitudini è spesso «indizio dell’elaborazione che le ha partorite» (Luca Serianni, La lingua di Pasolini prosatore, “Contributi di filologia dell’Italia mediana”, X, 1996, pp. 197-229, a p. 225). Nel brano seguente la regressione e il mimetismo, per citare due termini cari a Pasolini, non lasciano quasi traccia:

 

Come le case si allargavano, in qualche piazza, su qualche cavalcavia, silenzioso come un camposanto, in qualche terreno lottizzato dove non c’erano che cantieri con le armature alte fino al quinto piano e praticelli zellosi, allora si scorgeva tutto il cielo: coperto da migliaia di nuvolette piccole come pustole, come bollicine, che scendevano giù verso le cime svanite e dentellate dei grattacieli in fondo, in tutte le forme e tutti i colori. Conchigliette nere, cozze giallognole, baffi turchini, sputi color rosso d’uovo; e in fondo, dopo una striscia d’azzurro, limpido e invetrito come un fiume della terra polare un nuvolone color bianco, tutto riccio, fresco e immenso che pareva il Monte del Purgatorio.

 

Anche l’assaggio di dialogo tra il Riccetto e il compare prelude al molto che Pasolini ci ammannirà nel tragitto; a partire da quell’«a casa vado» che sembra un costrutto artificiale ed è invece probabilmente da intendersi come acefalo, come in tanti esempi del romanzo: «Me lo porto a casa, me lo porto»; «è ito a fasse ’a communione, è ito»; «So’ c… sua, so’». Il tutto fra tante piccole incongruenze che, sommate le une alle altre, finiscono quasi per costituirsi in microsistema.

Il romanesco viene sconfessato nell’incipit da aòh e addò, che mentono nel timbro vocalico (a Roma sarebbero aóh, addó); altrove da forme come conoscio, indovve, ofrì o alora: «Ma alora voi» dirà il Riccetto, e avrebbe dovuto usare allora (sebbene, nella storia del romanesco, si possano attingere qua e là esempi di alora); oppure da sequenze improbabili o inattendibili: «che nun ’o   [= non lo] rimedi mezzo corpo?»;  «che nun ’o venisse a sapè mi’ padre»; «Come, ’un ’o [= non lo] conoscio»; «c’aveva un maiale a Bagni de Tivoli, i’ una baracca in mezzo ai campi». A svelarsi via via al lettore sono però soprattutto la desultorietà o l’irrealtà nella rappresentazione delle doppie al confine di parola. Nell’incipit abbiamo «a casa» e «che ce sta», ma avremmo potuto avere «a ccasa» e «che cce sta». La consonante raddoppierà in «Rimano de qqua ancora un pochetto»; «’O impari pure a mme?», «attento a tte!», «E cche vvòi» ma non in «E che me frega a me!», «e vattelo a ffà da te, si te ficca», «Ma chi te dice de fassela n’antra vorta a ppiedi»; «Approfitta, a maschiè, che qua è na pacchia». Incontreremo «se famo na bbomba» e, appena un rigo dopo, «fàmose sta bomba»; «Fàmose na camminata a ppiedi» e, due righe dopo, «Fàmose  na camminata a piedi»; «Che stai a fa?» e, due pagine dopo, «Che state a fffa?»; «T’ho da ddì?» (ma avrebbe dovuto essere, in romanesco, «T’ho dda dì?») e anche qui, due pagine dopo, «dovevo da na parola a st’amico mio» (nuovamente, un po’ più avanti: «dimme quello che me devi da ddì»). «C’aspetti ar Marechiaro, ha’ ccapito, ar Marechiaro?» dirà Alvaro, e avrebbe dovuto dire capito; «Dì de nno», «nun lo ddì a nissuno», «te li puoi ffà pure da tte», «Mica ’o sapevo sa’ […] che li funerali te stufaveno tanto, ma proprio tanto ssa’» dirà il Riccetto, e avrebbe dovuto dire «Dì de no», «nun lo », «te li puoi pure da te», «ma proprio tanto sa’»; «si vvenghi pure tte è mejo», «Hai vvisto?», «Io sso uno che nissuno può ddì niente de me» farà Amerigo, e avrebbe dovuto fare «pure te», «Hai visto?», «Io so [a rigore: so’] uno»; «Nota mejo de tte» grida Armandino, ma avrebbe dovuto gridare «de te»; «Che, c’ha un cerino ppe’ favore?» domanda cortesemente il Begalone, e avrebbe dovuto chiedere «Che, c’ha un cerino pe’ ffavore?». Talvolta ci si interroga sul senso di variazioni interne al romanesco, o su alcune infiltrazioni dell’italiano nel suo tessuto, che Pasolini si sarebbe potuto risparmiare; si noti l’alternanza fra «co na mazza» e «co una latta», fra «pe gentilezza» e «per davero»; fra «Che, c’hai ’a puntata co’ quarcheduno?» e «Vie’ con me» o «Chi se butta con me?». Anche con apostrofi, accenti, separazioni tra le parole non andiamo meglio: ched’è vs che d’è; «Mica se vole sprecà, sa’» vs «mica c’ho intenzione de pijamme na pormonite, sa»; «Io non tenevo ’na lira» vs «Ma si nun tengo più na lira!»; «Ma addò va ’sto ’ncefalitico» vs «Mo piagne, sto stronzo»; «nun ce se pò stà llì» vs «E te che te facevi  dà li sordi da l’amico pe mannà ar cinema li fiji e sta sola con lui!».

Sono soltanto alcuni macroscopici excerpta di una serie cospicua di contraddizioni che hanno fatto spesso parlare di un romanesco, nella migliore delle ipotesi, un po’ problematico. Di fronte a scelte del genere il principio di verosimiglianza deve abbandonare il campo, il presunto rispecchiamento linguistico di un preciso spaccato sociale deve cedere il posto alle naïvetés e alle superficialità, alle mistificazioni e alle capricciosità della letteratura. Il problema centrale della lingua di Ragazzi di vita e Una vita violenta è la preventiva rinuncia a una ricerca che puntasse a registrare il romanesco come dialetto a tutto tondo. Anziché decidere di riprodurlo in un modo un po’ di sghimbescio facilmente smascherabile da un lettore nemmeno troppo smaliziato, che abbia una qualche familiarità con il dialetto di Roma, Pasolini avrebbe potuto ricavare di più dai suoi giovanissimi “consulenti”, a partire da Alvaro Muratori (er Traballa, che lo introdusse nell’ambiente), e dal suo «vivente lessico romanesco» Sergio Citti, conosciuto appena arrivato a Roma; o giovarsi dell’aiuto del poeta Mario dell’Arco, con cui era entrato in contatto ben prima del suo approdo nella capitale.

Anche di fronte a «tengo fame» la giustificazione in nome del romanesco sembrerebbe venir meno: per Serianni l’uso di avere per tenere, caratteristicamente meridionale, sarebbe «da sempre estraneo al romanesco» (art. cit., p. 203). Ma qui bisogna tener conto della sua stratificazione. Tenere per avere, all’apparenza, non dovrebbe essere di un romano de Roma – che avrebbe detto «c’ho fame», «c’ho ffame» –, eppure il Riccetto parla e si comporta in quanto tale. Potrebbe essere facilmente spiegabile in bocca a un romano inurbato (come sono inurbati i tanti occupanti delle piccole case del Borghetto Prenestino, «cafoni pugliesi o marchegiani, sardegnoli o calabresi»), ma un po’ tutti i ragazzi di vita che lo adoperano dovrebbero allora provenire da fuori, o essere figli di padri e di madri emigrate: «Le tenghi cinque piotte?» (Zambuia); «Che ’a tengo io ’a penna, a ciocco» (il Cappellone); «tengo tre piotte!» (il Picchio); «Io non tenevo ’na lira» (il Lenzetta); «Fa un po’ vede che tenghi in quella mano» (il Caciotta); «Quanto tenghi in saccoccia?» (Amerigo); «E li sordi addò li tenghi?» (Alduccio); «Che deve da tené paura de n’antro cane?» (il Roscietto); «Tenemo na fame che stranutimo, è da stamane li mortacci sua che nun magnamo!» (il Begalone).

Che la voce si sia irradiata dalla provincia alla capitale e generalizzata nell’uso del sottoproletariato capitolino, o di una fascia di romani magari molto più ampia? Potrebbe anche essere, ma il punto è un altro: attribuire a tenere per avere un valore assoluto, nel riconoscimento del disinvolto approccio pasoliniano al dialetto di Roma, perché «non è certo un tratto romanesco» (Walter Siti, Silvia De Laude, a cura di, Romanzi e racconti, vol. I, Milano, Arnoldo Mondadori, 1998, p. XCIX), dimostra una scarsa conoscenza dei monumenti più recenti di quel dialetto e del romanesco tout court; dovrebbe allora essere l’accertamento delle convergenze fra linguaggio della tradizione e linguaggio della realtà a tener qui banco. Quella forma, di tanto in tanto, l’ho sentita uscire dalla bocca di mio nonno. Una forma realmente adoperata anche dai giovani e giovanissimi sottoproletari pasoliniani; a confermarmelo uno di loro, che ho incontrato l’8 agosto scorso: il poeta e pittore Silvio Parrello (er Pecetto). Se poi il Belli ne è avarissimo («Pe cquesto ir papa ha li sordati sui; / e ssi Ccristo teneva [‘avesse avuto’] li sordati /sarebbe stato mejjo anche pe llui», Li sordati, vv. 12-14; «Lei crede de pijjacce pe ccardei, e io tiengo ’na scerta coratella [‘lei pensa di prenderci per i fondelli, e io ho un certo coraggio’]», Sant’Agustino lo mett’in dubbio, vv. 5-6; semanticamente meno probanti esempi come «S’io perantro ho da dilla tal e cquale / come la tengo in corpo, io nun ce spero: pe mmé, cquer dritto nun je viè ssincero», La vedova aringalluzzita, vv. 5-7), tenere con valore di possesso trova ampio sfogo in Trilussa:

 

«io che tengo de dietro un capitale / nun ciò nessuno che me venga intorno, / nessuno che m’apprezza e che me loda / la mercanzia che m’esce da la coda!» (La gallina lavoratora, vv. 9-12); «Tengo un Sorcio, drento casa, / ch’ogni notte, a una cert’ora, / zitto zitto scappa fòra, / guarda, cerca e sficcanasa» (Er sorcio vendicatore, vv. 1-4); «Vent’anni fa m’ammascherai pur’io! / E ancora tengo er grugno de cartone / che servì p’annisconne quello mio» (La maschera, vv. 1-3); «Io tengo quattro mani, ma ar momento / che devo fa’ quer dato movimento / ognuna m’ubbidisce a la parola / perché è guidata da una testa sola» (Er drago e er ranguttano, vv. 11-16); «E tengo, pe’ de più, la protezzione / d’un pezzo grosso de li più potenti, / che me le manna tutte quante bone…» (Venditore de fumo, vv. 8-10); «Tenghi un cane pe’ cantone / che te manca de rispetto: / mó un burdocche, mó un lupetto, / mó un bassotto, mó un barbone…» (Er cane e la cagna, vv. 9-12); «— De Bolè? Dica un po’? ma so’ parenti / de quello ch’hanno fatto cavagliere? / — No, a Roma ci ho soltanto un zio droghiere / che tiene la bottega a li Serpenti…» (La presentazione, vv. 5-8); «Ma nun ve faccia spece: l’Omo umano / dice ch’è un animale raggionevole, / ma nun raggiona mai; de rimarchevole / nun cià che la parola: è un ciarlatano; / tiè quarche vizzio, in quanto ar resto poi / gira e riggira è tale e quale a noi» (Er serraio: la ribbejone, vv. 55-60); «Tiè sempre li Bambini indeficenti, / er Pro-scôla, er Pro-infanzia, er Pro-vecchiaja… / Ma nun da’ retta: tutti appuntamenti!» (La signora infilantropica, 9-11); «Ma se ariva a scoprì che er ciarlatano / che je promette er solito prodiggio / tiè quarche inghippo preparato in mano, / eh! allora so’ dolori! Nun s’aregge!» (Le decisioni der re, vv. 44-47).

 

Un po’ diverso un caso come questo: «Già me tengo un discorso preparato / dove ciò messo tutto: l’affarismo, / li sfruttatori der capitalismo, / co’ la conquista der proletariato, / benessere sociale, Fratellanza, / Giustizzia, Libbertà, Fede, Uguajanza…» (Er serraio: la fine de lo sciopero, vv. 13-18).

Giancarlo Liviano D’Arcangelo è nato a Bologna nel 1977, è cresciuto a Martina Franca e vive a Roma. Ha esordito nel 2007 con il romanzo Andai, dentro la notte illuminata (PeQuod), finalista al premio Viareggio. Nel 2008, con il racconto Ustica, il silenzio e il Segreto ha partecipato all'antologia La Storia siamo noi (Neri Pozza), che ha aperto il Festival delle Letterature di Roma. Nel 2011 ha pubblicato il reportage narrativo Le Ceneri di Mike (Fandango Libri, Premio Croce 2012, Premio Sandro Onofri 2012). È studioso di mass media e scrive di cultura per il quotidiano “l’Unità”.