Azzorre 2005: il naufragio di Arlecchino

da | Dic 21, 2015 | Senza categoria

I movimenti fluidi, una danza in assenza di peso.

Trentottesimo parallelo Nord e ventottesimo meridiano Ovest, una mattina di gennaio di dieci anni fa. Il mare è una coperta strappata dalla schiuma. La costa svetta sfidando il vento. Però c’è anche qualcos’altro, qualcosa che si muove tra le onde, colorato come l’arcobaleno. Agita braccia e gambe sinuosamente, ma non è una creatura marina. Rodrigo Delgado, un biologo marino che lavora per conto del Dipartimento di Oceanografia delle Azzorre nella Baia di Ribeira de Cabras a Praia do Norte, sull’isola di Faial, lo vede passare. Stringe gli occhi per mettere a fuoco, non capisce di cosa si tratti: sembra un uomo che danza silenzioso, incrociando braccia e gambe, annodandole e poi sciogliendole ancora, come in un film comico, ma con una grazia diversa. Poi arriva un’onda e la strana creatura si distende: è un vestito da Arlecchino. Il pesce che lo segue è in realtà la sagoma scura di una maschera. A qualche metro di distanza, una parrucca dall’aspetto di una spugna s’inabissa verso un banco di corallo.

Sì: tra tutti i pasticci e le disgrazie di Arlecchino, c’è anche un naufragio.

Qualche giorno prima, il cargo CP Valour era salpato dalle coste americane nei suoi 177 metri di lunghezza e 35 di altezza. Tra i tanti container, uno blu chiaro: su un lato riporta il nome del colosso coreano dei trasporti navali, Hanjin. È un viaggio di routine. Ma dopo quasi tremila chilometri, il tempo cambia e il 9 dicembre 2005 alle 17:15 la CP Valour sorpresa da una tempesta s’incaglia al largo di Faial, un’isola delle Azzorre. I giorni di maltempo continuano e rendono impossibile la rimozione della nave. Il rimorchiatore russo Fotiy Krilov rinuncia al salvataggio e attracca al porto di Horta, mentre una patina di nafta, lenta e inesorabile, ricopre Praia do Norte.

Il comandante Rodrigues Cabral, del Comando della Zona Marítima, viene svegliato nel mezzo della notte, accarezza la moglie mezza addormentata al suo fianco, e cercando di non disturbare il suo sonno, si mette al telefono: un armatore di sua conoscenza ha contatti con un’impresa olandese specializzata in questo tipo di recuperi navali. Ma i giorni passano e le operazioni non hanno successo, non quello sperato. L’elicottero Kamov 32 si alza in volo ogni giorno, persino a capodanno, per trasportare dalla nave il materiale più pericoloso. Poi, a gennaio, il tempo peggiora ancora. Un’onda enorme dà uno schiaffo alla nave incagliata e alcuni dei cinquecento container si riversano in mare come enormi pezzi di lego. Tra le onde si diffonde uno sciame di semi di girasole, una nuvola di grani di sesamo, l’ennesima coda di idrocarburi.

Eppure, tra le notizie allarmanti c’è anche qualcosa d’inaspettato, tanto strano da sembrare una luminosa premonizione. Dal container Hanjin fuoriescono costumi, manichini, parrucche, scenografie, fotografie e manifesti di uno spettacolo che è appena stato in tournèe negli Stati Uniti: l’Arlecchino servitore di due padroni del Piccolo Teatro di Milano.

Arlecchino alla conquista del West

Due mesi prima, a fine settembre 2005, gli attori del Piccolo Teatro sono pronti per la grande tournèe americana. Ferruccio Soleri (Arlecchino), Giorgio Bongiovanni (Pantalone de’ Bisognosi), Paolo Calabresi (Dr. Lombardi), Pia Lanciotti (Beatrice), Sara Zoia (Clarice) ed Enrico Bonavera (Brighella) andranno da Broadway a Colorado Spring e poi a Los Angeles, a Berkeley, ad Ann Arbor nel Michigan, a Minneapolis e infine a Chicago. Rimarranno in tournèe per otto settimane. È una durata record, se si considera il fatto che si tratta di uno spettacolo di tre ore, recitato oltretutto in dialetto veneto. Certo, Arlecchino è un mito, come un mito è Arlecchino servitore di due padroni, la rivisitazione di Strehler del classico di Carlo Goldoni. Uno spettacolo andato in scena in quaranta paesi, per un totale di duemiladuecento repliche: fresco, leggero, imprevedibile, nato nel 1947, appena dopo la guerra, per gli americani rimane comunque una novità. Non è neanche uno spettacolo, ma un vero pezzo d’arte. Come una mostra sul Rinascimento, come la Gioconda.

All’Alice Tully Hall di Broadway per quattro serate c’è il tutto esaurito, anche se i biglietti costano sessanta dollari. Una donna lo ha già visto a Sydney, un signore a Parigi. Una ragazza dice di aver pianto quando ha visto Soleri all’Istituto Italiano di Cultura il lunedì sera. C’è addirittura chi farà il bis al Lincoln Center Festival. Ed è qui che arrivano anche molti teenager. Forse per colpa di un errore, ironizza un cronista americano: chissà che non confondano la maschera di Arlecchino per quella di un cattivo armato di motosega, un epigono di Jason Voorhees (quello di Venerdì 13). Ma l’equivoco è subito sciolto una volta iniziato lo spettacolo. Per molti è qualcosa di mai visto: buffo, strano e ingenuo, colmo di poesia, con un che di Charlot e un tocco di Homer Simpson.

Il pubblico americano rimane stregato. Arlecchino è slapstick, è ridicolo in senso archetipico; ma è anche diverso dalla comicità alla quale sono abituati: non è un cartone animato del sabato mattina, né un film di Abbott e Costello (i nostri Gianni e Pinotto). è qualcosa di più semplice, la follia evocata nei comportamenti esagerati, nella manipolazione del linguaggio. Gli sguardi degli spettatori si perdono un po’, costretti a leggere la traduzione in inglese che scorre sopra il palco, ma spesso le parole non sono necessarie. Quando l’affamato Arlecchino si concede un lauto pasto degustando una mosca acchiappata al volo, i bambini in sala vanno in visibilio.

L’Arlecchino gira per il mondo come gli attori dell’antica Commedia dell’Arte.

Succede anche se la Commedia dell’Arte è morta, perché ormai non c’è nessuno al mondo che reciti lo stesso personaggio per tutta la vita. Nessuno tranne Ferruccio Soleri. Lui non fa Arlecchino, lui è Arlecchino. E per uno strano cortocircuito del destino, dopo la conquista del West, Arlecchino approda anche alle Azzorre.

Le rotte del destino

Gli attori del Piccolo prendono l’aereo da Chicago e tornano trionfanti a Milano. Attenderanno per giorni i loro costumi e gli oggetti di scena, pensando al peggio, pensando di non rivedere mai più le maschere abilmente create da Donato e Amleto Sartori. Poi però al Piccolo Teatro Strehler arriva un messaggio.

È scritto in portoghese, ed è un messaggio di speranza. A rispondere sarà Alessandra Vinanti, responsabile della tournée negli Stati Uniti: “… We thought everything was lost and your message was a sparkling light in this nightmare…”

Con il naufragio della CP Valour, il teatro, le sue suggestioni, i suoi codici, sembrano guidare i fatti reali. Dopo un senso di sospensione shakespeariano, legato alla tempesta durata più di un giorno, gli abitanti delle isole si rimboccano le maniche.

Già dal 12 dicembre, a Praia do Norte, iniziano le operazioni di pulizia per eliminare i detriti di idrocarburi. Si interrompono il 25 dicembre, ma solo per colpa del maltempo. Ci sono persone di ogni età: qualcuno lavora al Dipartimento Oceanografico, qualcuno è arruolato nella Marina, qualcuno arriva dalla nave Fotiy Krylov, dalla Magadir, dalla stessa CP Valour; da altre isole. C’è qualche pescatore, qualche comune cittadino. E anche alcuni attori. Fanno parte della compagnia amatoriale del Teatro de Giz della città di Horta. Da qualche giorno discutevano sulla stagione teatrale, indecisi su cosa mettere in scena, fin quando la notizia del naufragio non ha messo in allerta tutti i cittadini.

Quando la compagnia de Giz arriva a Praia do Norte il vento è molto forte, la spiaggia nera di detriti, ingombra dei resti del naufragio. Non sanno da dove cominciare, ma cercano di mettersi al lavoro, muniti di grossi rastrelli. Vicino a uno scoglio che affiora sulla battigia, trovano una cassa mezza distrutta. Sul fondo, sotto un panno di stoffa, c’è una maschera. Più in là, accartocciato come uno straccio, un costume a rombi colorati. E ancora: un corpetto, una gonna. Non sanno cosa pensare. Forse provano i costumi, forse no. Sicuramente se li mostrano gli uni con gli altri, se li passano come se avessero trovato un tesoro: c’è qualcosa di misterioso in questa coincidenza. Certo, è un segno. Oppure un’occasione, ancora non lo capiscono di preciso.

Uno di loro avvicina al viso la maschera bagnata, imperlata di granelli di sale. Anche se intorno ci sono quaranta persone in tuta bianca e guanti gialli, la cp Valour incagliata al largo sembra trovarsi al confine tra finzione e realtà. Alcuni attori della compagnia ricordano di aver studiato L’isola degli schiavi di Marivaux (spettacolo messo in scena molte volte dallo stesso Piccolo di Milano). Nella pièce una nave fa naufragio. Padroni e servitori (Silvia e Arlecchino) si trovano catapultati su una bizzarra isola dove saranno invitati a scambiarsi i ruoli. È questo lo spettacolo che la compagnia de Giz metterà in scena mesi più tardi. Ma solo dopo aver fatto qualcos’altro. Sulla superficie delle casse di legno è stampato in rosso il nome del Piccolo Teatro. È così che la compagnia contatta Milano e rende noto il ritrovamento.

Questa però è la storia di un viaggio circolare che non termina alle Azzorre, ma ha ancora qualche chilometro da fare. L’ultima tappa è a Milano nel maggio 2007, per i sessant’anni del teatro fondato da Giorgio Strehler, Paolo Grassi, Nina Vichi. Il teatro de Giz viene invitato ufficialmente. L’anno precedente, infatti, grazie ai finanziamenti della Radio Televisione Portoghese, la compagnia delle Azzorre ha prodotto un film documentario sul ritrovamento dei costumi. S’intitola A ilha de Arlequin, “L’isola di Arlecchino”, per la regia di Josè Medeiros. Verrà proiettato in occasione dei festeggiamenti.

Il 6 maggio a Milano è una sera primaverile, l’aria è frizzante. La forza di Arlecchino, la sua allegria, ha viaggiato oltre le sue intenzioni. Si è fatta comprendere da lingue diverse, da persone impensate. È arrivata dove non si sarebbe mai immaginata, ben oltre l’America: su un’isola fuori dalle rotte dei grandi spettacoli, lontana da qualsiasi cosa. Ed è tornata con ancora più energia di prima. Vivificata dall’incontro tra realtà e finzione. Dall’incrocio improbabile tra uno dei teatri più importanti del mondo e la spontaneità guizzante di un gruppo di giovani.

Questo articolo è già apparso su “Treccani Pem”, il magazine online di Treccani qui

 

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).