Atti impuri

da | Giu 4, 2013 | Senza categoria

Alla fine pensò che lo poteva fare, bastava prestare attenzione al modo. Il modo era tutto. «Ogni volta che facciamo qualcosa con cura distruggiamo il male che è in noi» diceva la sua amata Simone Weil, una minuta insegnante di liceo che si era fatta assumere alla Renault in qualità di operaia di primo livello, per non parlare a vanvera di proletariato come succede di solito agli intellettuali.

Per farlo con cura doveva dimenticare di essere lui, ovvero non doveva curarsene. Doveva farlo accettando che la tentazione riempisse il cervello con le sue volute di fumo azzurro, ma senza esserle complice. Bastava non scendere a patti col desiderio, rispondergli come se la questione non lo riguardasse. Doveva disincarnarsi, uscire da se stesso, guardarsi agire da un punto lontano fuori pericolo, seguire la linea luminosa tracciata dalla parola estasi. Già, l’estasi però era un problema. Perché era così bello quel momento? Così pieno di luce e calore, pochi istanti di oscena beatitudine.

Agnieszka e Jozefina erano fuori con gli altri, sentiva le loro voci per brevi istanti, mezze frasi, spesso anche solo un paio di sillabe tintinnanti nel brusio generale, suoni venuti in superficie per lui, apposta per lui, dallo scrocchiare dei rami mossi dal vento e gli altri rumori dello sfondo. Pawel stava provando qualche accordo, tra poco il coro si sarebbe levato, prima in sordina, misurando il tono con gli sguardi e i sorrisi d’imbarazzo, poi sempre più forte, e anche loro si sarebbero messe a cantare.

Il pane era diventato gommoso per l’umidità, ma il profumo era buono: segale e legna bruciata. Tagliava grosse fette tenendo fermo il filone con la mano sopra la carta, svestendolo via via che si accorciava. Nel rifugio gli escursionisti che li avevano preceduti (chissà quanto tempo prima) avevano lasciato tutto in perfetto ordine. I coltelli e il bollitore erano puliti, le tazze per l’orzo appese ai ganci appositi. Nella credenza due scatolette di carne, un po’ di zucchero rappreso nel barattolo e il resto dei loro preziosi avanzi lasciati in dono al prossimo, come lui e i ragazzi avrebbero fatto andandose di lì a un paio d’ore. I ragazzi. Perché lui invece che cos’era? A guardarlo in mezzo al gruppo sembrava un loro coetaneo, ma questo non significava nulla. Lui era il pastore, lui era la guida.

Le ragazze erano appena tornate dai cespugli al limitare del bosco con un paio di manciate di mirtilli e ora li distribuivano. A Pawel glieli mettevano direttamente in bocca indugiando sul gesto per far ridere gli altri, mentre lui continuava a controllarsi serio le dita sulle corde della chitarra. La serietà dei suoi studenti, la fresca, briosa serietà di quel gruppo di giovani, lo metteva quasi in soggezione. «O Serafin, tu povero – cantavano – fa’ che sprezziam la terra che ci fa guerra ognor», eppure erano un nucleo pulsante di godimento terrestre, splendidi guerrieri rilassati durante una breve licenza, che scherzavano con un’ombra di consapevolezza nello sguardo, la serena determinazione di chi è sempre pronto e non verrà mai sorpreso dal giorno del Giudizio.

Li teneva d’occhio dalla porta aperta armeggiando sul cibo. Jozefina si era proposta di aiutarlo, ma lui l’aveva spedita dagli altri con una spintarella, fianco e spalla a respingere l’attaccante lontano dalla palla, una pantomima scherzosa con le mani sporche di salsiccia sospese a mezz’aria, nel petto il grosso cuore che frulla disperato. Era proprio questo che temeva, l’astinenza provocava questo. Ogni volta che aveva ceduto, un senso profondo di sconfitta si era impossessato di lui, ma dopo era stato meglio. Dopo affrontava le ragazze disinnescato, i contatti fortuiti riconquistavano la dimensione cameratesca, poteva partecipare alle partitelle di calcio senza paura, il corpo a corpo era solo un corpo a corpo, braccia e gambe intrecciate in una lotta sportiva, l’epifania dell’innocenza più assoluta.

Quindi? Quindi sì, poteva, doveva farlo.

Cominciò a sistemare i pezzi di salsiccia nei panini, mentre la ogorkowa portata da Gabriel sobbolliva sul fornello da campo mischiando l’odore di cetrioli e barbabietole al profumo di resina proveniente dalle assi con cui di recente era stato rattoppato il tetto. Alcuni avevano nascosto nello zaino qualche bottiglia di birra e gliel’avevano mostrata con aria colpevole una volta arrivati in vetta. Ma in fondo che male poteva fare un po’ di birra in una bella giornata di sole tra amici? Ovviamente aveva storto il naso – avevamo detto niente birre – poi gli aveva insegnato ad aprirle sulla roccia. Punti la corona, dài un colpo secco con il palmo della mano e zac, il tappo salta via. I soliti trucchetti da caposcout per mantenere alta la considerazione nel gruppo. Il fatto è che lui non era un caposcout e non aveva certo bisogno di trucchetti: gli studenti accovacciati sul prato lì fuori avevano rinunciato al ballo pomeridiano al dopolavoro ferroviario per seguirlo in montagna, quel sabato.

Chi ballava meglio: Agnieszka o Jozefina? Agnieszka, così snella, gli occhi e le caviglie di cerva, i capelli raccolti in una coda alta fin quasi sopra la testa. Oppure Jozefina, sempre accaldata, con gli zigomi in fiamme, il tritolo nei polpacci e quella febbre da mistica, da invasata, nello sguardo. Mentre mescolava la ogorkowa si accorse che ci stava cascando di nuovo, il che lo costrinse ad appoggiarsi al tavolo e abbassare le palpebre per reggere all’ennesima ondata di prostrazione. La velocità con cui si riempiono di sangue i corpi cavernosi è impressionante. Se questo era l’effetto dell’astinenza, se non farlo comportava pensare a Jozefina in questo modo, anche Nostro Signore lo avrebbe sospinto a trovare un rimedio. E l’unico rimedio rivelatosi di una qualche efficacia, a dispetto degli infiniti sforzi e ripensamenti, era quello.

Con i ragazzi era diverso. Nei rari casi in cui glielo confessavano, lui era costretto a redarguirli, abbassava la voce per ottenere un tono ancora più grave e diceva: «Non va bene, amico mio, quello che fai è sbagliato, lavora con tutto te stesso per evitare di ricaderci». Ma ormai, per averlo provato troppe volte su di sé, era quasi sicuro che quella proibizione, e l’aura fosca che l’avvolgeva, finissero per alimentare il desiderio. Era triste riscontrare quanto fossero fondati i luoghi comuni in fatto di lussuria. Condividere le sensazioni degli altri, gli stessi automatismi mentali, da un canto lo scoraggiava, dal canto opposto lo metteva in maggiore sintonia col prossimo, lo costringeva a non perdere di vista la debolezza e la fragilità della sua condizione, la meravigliosa avventura di uno spirito caduto, racchiuso per un tempo brevissimo dentro tuniche di pelle. Un uomo gettato nel mondo. E lui amava il mondo, amava la salsiccia secca, i panini che stava preparando, l’allegria dei suoi ragazzi e i suoni del bosco lì fuori. Non aveva fretta di andarsene, voleva solo che la vita sulla terra gli permettesse di godere e soffrire insieme alle altre persone restando un uomo diverso, in missione tra i suoi simili. D’altronde lo diceva anche San Paolo agli Efesini: «La nostra battaglia non è contro creature fatte di sangue e carne, ma contro gli spiriti del male che abitano in cielo». Anche lui era di sangue e carne, e anche il Redentore. Tentare di sottrarsi a questa evidenza sarebbe parso ancora più blasfemo. Pretendere di bloccare il corso della natura per amore di Dio poteva finire per essere un oltraggio, il residuo di una superbia prebabelica. O forse il tocco sublime dell’infanzia, l’illusione romantica della forza del pensiero, la speranza che la salvezza avvenga per magia, in fondo la fede più alta.

Si ricordò del film che avevano visto tutti insieme al cineforum della parrocchia nelle settimane precedenti: un cortometraggio antico di Alice Guy-Blaché, la prima donna regista della storia. Falling Leaves, 1911. La piccola Trixie assiste preoccupata al dialogo tra la madre e il medico sullo stato di salute della sorellina maggiore Winifred. La tisi procede a grandi falcate, quei volti scuri non promettono nulla di buono, infatti a un certo punto, indicando gli alberi in giardino, il dottore sentenzia: «Quando sarà caduta l’ultima foglia, Winifred non sarà più tra noi». Trixie resta sconvolta dalla notizia, ma a differenza della madre prende l’annuncio alla lettera. Il problema è fuori, non dentro casa. Dopo una notte di elucubrazioni trova la soluzione: si arma di ago e filo e scende in giardino a riattaccare le foglie. Quando si dice una lotta contro il tempo. Esiste un esempio migliore? Trixie impedisce all’autunno di finire. Per amore della sorella eternizza il presente nel kairos, «il tempo designato nello scopo di Dio, il tempo in cui Dio agisce» come dice il Vangelo di Marco. Fanno così i bambini, non resterò senza mia sorella, i suoi polmoni guariranno, non sputerà più sangue, l’inverno non arriverà, io pregherò Gesù e il mondo diventerà il Paradiso qui e ora, alberi sempreverdi, l’affresco ideale di ciò che voglio e amo.

Ma lui era un adulto, un adulto tra adulti, esseri umani che hanno raggiunto una coscienza di ordine superiore e conoscono l’ineluttabilità della materia, la sua perpetua trasformazione, le sue gioie transeunti, la degenerazione e la morte secondo i disegni imperscrutabili di Nostro Signore. Nessuno sapeva in che modo le leggi della natura erano poste a servizio di Dio e lui non sarebbe stato certo il primo a ricevere una simile rivelazione. Lui sapeva solo che Dio sottoponeva tutti i suoi figli allo stesso trattamento e che il bosco dove si trovava con i ragazzi non era ancora il Paradiso, ma un posto magnifico in cui vigevano quelle leggi crudeli. In quel bosco, e ovunque sulla terra, le foglie cadevano e lui desiderava Jozefina.

La desiderava nel modo più lurido e avvilente: schiacciata alla parete, la lingua spinta in gola, una gamba sollevata, la gonna stretta in pugno. Dovette appoggiarsi di nuovo al tavolo per sostenere la vergogna di un’eccitazione così violenta, una volontà cieca, totalizzante. Minuscole gocce di sudore gli imperlavano il labbro superiore. Padre, perdonami. Si guardò le mani, forme plasmate il sesto giorno per distinguerci dagli altri animali. L’avrebbe fatto, stava per rifarlo. Se le pulì sui pantaloni, spense il fuoco sotto la zuppa e tagliò spedito il prato sul quale i ragazzi cantavano: «In compenso al vostro amore accendete entro il mio petto casta fiamma e santo ardore, sacro cuor del mio Gesù».

Allo sguardo interrogativo di alcuni – Agnieszka, ad esempio, mentre Jozefina seguitava a cantare senza accorgersi di nulla – lui elargì un sorriso vagamente autoironico, il segno più o meno convenzionale di un’urgenza corporale, e si diresse nella profondità del bosco. Nessuno oltre a lui sapeva che non andava a orinare. Nessuno oltre a Dio onnisciente, l’ente perfettissimo creatore del cielo e della terra di fronte al quale avrebbe peccato per l’ennesima volta. Che succedeva in Paradiso? Forse tutte le anime avrebbero visto i filmini delle cose che abbiamo fatto in perfetta solitudine? I suoi genitori, i suoi maestri, i suoi ragazzi, tutte le anime avrebbero visto il filmino di quella volta in cui lui in mezzo agli abeti si contorceva infoiato come un cane, gemendo con la bocca semiaperta, mentre nella radura a cento metri da lì cresceva il coro «Ave Regina caelorum, ave Domina Angelorum, salve radix, salve porta, ex qua mundo lux est orta»? Non era questo il modo. Il modo era tutto, e lui stava sbagliando. Non si stava disincarnando, non stava raggiungendo nessun punto lontano da cui guardarsi agire, non era affatto fuori pericolo, nella sua mente si agitavano forme concrete, immagini irresistibili dotate di terza dimensione, e lui era lì dentro con loro. Quelli erano i polpacci di Jozefina, se teneva chiusi gli occhi gli pareva davvero di poterla toccare. Si era mentito. Una pratica da espletare con indifferenza infermieristica, l’abilità di trasformare con la forza del pensiero il desiderio in bisogno: tutte sciocchezze. Sognò ancora per qualche secondo, poi gli si piegarono le ginocchia, sentì il calore crescere nel ventre e sollevarsi in fiocchi rigonfi, aggregati tra loro, ancora in costante espansione, qualcosa di molto simile a una nuvola di neve calda che si allargava premendo ai suoi confini fino a prendersi tutto, dentro e fuori di lui, una condizione panica di benessere e sperdimento. Liberazione e dissolvimento. Estasi. Ex stasis. La nuvola riempì per un istante ogni sua cellula e l’istante dopo svanì.

Di nuovo l’odore di terra, il fulgore smeraldino del muschio, di nuovo le cortecce lucide, la penombra, il martellare del picchio, di nuovo la chitarra e le voci lontane. Era preparato allo sconforto, eppure vi precipitò con tale immediatezza da restare quasi senza fiato. Contemplò i miliardi e miliardi di vite non nate che colavano giù dal tronco, gente piena di futuro, un potenziale immenso di amori, amicizie, esperienze personali, ricordi. Fratelli e sorelle privati della fortuna di godersi in allegra compagnia un panino con la salsiccia secca. Si guardò dove non avrebbe voluto: come potevano quelle povere mucose produrre un piacere così intenso? Non era ingiustizia questa? Pregò, chiese ancora perdono.

I ragazzi erano rimasti nella stessa formazione a farfalla, quattro losanghe di coristi con la chitarra al centro. Il sole intrideva di luce i capelli, compatti e splendenti come livree di corvo, come carrozzerie. Agnieszka e Jozefina erano sedute vicine, sulle note più alte si studiavano l’un l’altra sorridendo. «Per le piaghe che soffristi, Gesù mio, con tanto amore». Era meglio farlo, averlo fatto, via via che usciva dal bosco tornava a convincersene. Lo scoramento si dileguava a ogni passo. Ora riusciva a guardarle come doveva, com’era giusto: studentesse in età da marito che presto avrebbero trovato l’anima gemella e avrebbero proseguito sulla via della verità e della bellezza, nonostante la brutale volgarità del regime. I materialisti che irridevano le persone di fede non avrebbero potuto nulla contro la purezza di quelle ragazze e dei loro amici. Che studenti. Che quadretto.

Ci sarebbe voluto un falò, ma la legna era fradicia e poi di lì a poco sarebbero ridiscesi a valle. Gli venne in mente la gita sul torrente l’estate di due tre anni prima, la messa celebrata sul kayak rovesciato a mo’ di altare, il crocifisso fatto dai remi legati insieme con la sua cintura. Oggi però niente messa, pensò. Almeno questo. E poi gridò di venire a prendersi la ogorkowa, se non volevano che si freddasse.

Grazie Karol. Grazie Karol. Si avvicinavano ognuno con la propria gamella da soldato e lo ringraziavano. Dopo distribuì i panini e si sedettero sul prato di nuovo tutti insieme. Cominciarono a circolare le pilsner. Il solletico del luppolo nel naso. Luppolo e ossigeno rarefatto a milleseicento metri sul livello del mare. Il sole era già abbastanza caldo, per essere ai primi di maggio, e la salsiccia era buonissima. Si appoggiò schiena contro schiena a uno dei ragazzi più robusti, chiuse gli occhi e continuò a mangiare. Non sapeva cosa chiedere alla vita che già non avesse. La guerra era ormai solo un ricordo, presto Cracovia sarebbe tornata graziosa come prima. Ecco, forse un giorno gli sarebbe piaciuto viaggiare un po’.

(Il racconto di Mauro Covacich è tratto dal numero 62 di Nuovi Argomenti, attualmente in libreria.)

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).