Appunti su democrazia e partecipazione in Italia

da | Apr 28, 2014 | Senza categoria

Negli archivi di “Nuovi Argomenti” abbiamo trovato questo intervento di Carola Susani su neonazisti al Pigneto, sulle logiche del conflitto, su manifestazioni antirazziste, sull’interesse generale e il pluralismo di classe. Era l’autunno 2008, il numero: Concordia Nazionale.

Nuove forme di partecipazione

Il giorno dei vetri infranti al Pigneto, quando un gruppo di dieci o quindici persone con le mazze, in pieno giorno, ha spaccato le vetrine di un call center e di due minimarket, io ero fuori Roma. Una testimone ha dichiarato di aver visto addosso a uno di loro una svastica, non si è capito se poi era vero. Mi ha chiamato Carlo. Era preoccupato, però mi diceva che i nostri amici, commercianti, ristoratori del quartiere, lo rassicuravano: non c’era, secondo loro, ragione di allarme. Io ero spaventata. Non ci potevo credere: cosa c’entrava un’aggressione neonazista sotto casa? Avrei capito venissero da fuori, che so, da Casalbertone. Ma si diceva che quella gente fosse del quartiere. Come era possibile? Da quando ci vivo, da sette anni, il Pigneto mi è sempre sembrato un posto con una sua civiltà. Un quartiere dove la principale considerazione di senso comune sugli immigrati è: anche loro devono lavorare, invece che: se ne devono andare; con una presenza operaia di vecchia data, ancora qualche ferroviere e tranviere, piccola borghesia, piccolissimo commercio. Anche molti degli autoctoni qui ricordano il loro arrivo, dal centro di Roma o dal meridione. Negli ultimi anni, insieme a bengalesi, senegalesi, peruviani, rumeni, magrebini e qualche egiziano, il quartiere è diventato attraente per la borghesia intellettuale. Conflitti di micromalavita, piccoli scontri tra comunità, non sono mai mancati e tuttavia, malgrado l’insofferenza di chi le risse se le ritrova sotto casa, il quartiere si è sempre retto su un suo precario equilibrio.

Carlo mi aveva raccontato che all’assemblea subito dopo i fatti c’erano i proprietari bengalesi del nostro minimarket. Non li avevamo mai visti a una manifestazione pubblica, anche loro come me avevano paura. Il lunedì la manifestazione antirazzista aveva un’aria sradicata, chi era veramente in apprensione per il razzismo veniva da fuori dal quartiere o lo viveva poco, gli altri erano pure in gran fibrillazione ma per altre ragioni, qualcuno che passava per caso dall’isola pedonale diceva: ma così—cioè fare una manifestazione antirazzista—non è troppo? Non diventa razzismo all’incontrario? Lo dicevano onestamente, lo dicevano ai loro amici rumeni cercando complicità.

Il giorno dopo tutto era più chiaro, il promotore della spedizione, Dario Chianelli, era uscito allo scoperto, mostrando la faccia di Che Guevara che gli campeggiava sul braccio come un resto d’identità. Raccontava che una sua amica dentro uno dei due minimarket aveva subito un furto e che lui si era sentito in dovere di reagire. Io Dario Chianelli l’avevo visto tante volte nel quartiere, era una presenza familiare. La storia del furto del portafogli inseriva mazze e vetri rotti dentro una logica di controllo del territorio. Tutti, noi, i nostri amici rumeni, il commesso del nostro minimarket, i commercianti, abbiamo tirato un sospiro di sollievo. Ma l’attacco agli altri due negozi, di cui uno in odor di spaccio, era già uno slittamento. I vetri infranti non erano più la reazione a uno sgarbo o lo erano a un livello più profondo. Scatenare dieci o quindici persone armate di mazze non era una cosa da poco, non era facile pensare di dominarle, qualcosa poteva sfuggire di mano. Doveva essere nel conto. Che l’aggressione poi avvenisse di giorno cambiava i termini: quelli che avevano colpito erano sicuri di avere ancora più che acquiescenza, consenso attorno, un quartiere che li legittimava. Un quartiere non monocromo. L’immagine di Dario Chianelli abbracciato da un amico senegalese con il berretto dell’Italia in testa [foto di Paulo Siqueira/ F3] è forse l’immagine più sintetica di quello che era successo.

Alla manifestazione si era parlato come sempre di razzismo, di xenofobia e la gente che un poco conosceva i fatti non capiva di cosa si stesse parlando. Nessuno era razzista qui, nessuno xenofobo. Il fatto che l’aggressione non scandalizzasse buona parte degli autoctoni, ma una volta nota nei suoi termini non scandalizzasse neanche buona parte degli stranieri, che tra gli aggressori ci fosse un ragazzo nero, che Chianelli fosse una persona come noi, che avesse Che Guevara tatuato sul braccio, avrebbe dovuto inquietarci e ci calmava. La nostra comunità era salva, anzi la sensazione era che godesse di una salute nuova. Come può capitare che ragazzini filippini, italiani, peruviani scelgano un compagno di classe filippino o effeminato o balbuziente particolarmente fastidioso e lo corchino di botte tutti insieme, godendo della gioia di essere una allegra baldanzosa comunità coesa, così noi, legittimati dal fatto che tra le vetrine spaccate ce ne fossero in odor di spaccio, tutti insieme ci placavamo nel sentirci comunità. E invece proprio in quel momento avremmo dovuto entrare in ansia, scoprendo che non c’è nessun bisogno di essere neonazisti per produrre quasi in vitro il meccanismo dell’exterminatio: tutti dentro perché qualcuno a calci e schiaffi lo vogliamo sbattere fuori. Se è vero che chi mena in questa logica può essere chiunque, è molto facile che chi ci sta sotto non abbia le spalle molto coperte, che sia più debole, che sia potremmo dire marginale. Probabilmente se i presunti spacciatori fossero stati italiani l’aggressione diurna di dieci o quindici persone con le mazze avrebbe fatto tutto un altro effetto. A me l’avrebbe fatto di terrore. Che quartiere è questo, avrei pensato, dove i conflitti si risolvono così? Ma erano bengalesi, perciò tutto ricadeva in una logica.

Qualche mese fa un amico mi raccontava delle aggressioni ai trans, mi diceva che lui era in macchina con una ragazza e stava passando per una delle strade dove girano a Roma leronde di quartiere, e un tizio, con un’arma a L, due grossi pezzi di ferro saldati, gli ha rotto il parabrezza. Per poco non spaccava la fronte alla ragazza. Questo mio amico devono averlo aggredito perché staziona qualche volta dalle parti dei trans. Probabilmente lo conoscono. Insieme all’aggressore dentro il gruppo c’era un signore che portava al guinzaglio un cagnolino bianco. Il mio amico l’ha incontrato anche di giorno, un brav’uomo, ironico, con il suo cane bianco. Quando il mio amico me lo raccontava, ero impressionata, ma mi sembrava una cosa lontanissima anche se succedeva a pochi chilometri da qui. Lontani erano soprattutto i giustizieri da comitato di quartiere. Di un’altra cultura, mi pareva, di un altro mondo. Mi scandalizzavano, mi facevano orrore: tutto qui. I ragazzi del Pigneto, Chianelli, non mi fanno affatto orrore. Ne capisco le reazioni, il senso della lealtà, il linguaggio, il mondo da cui vengono mi è comprensibile. Eppure il meccanismo che hanno messo in moto è lo stesso delle ronde, dei raid. I vetri rotti al Pigneto mi hanno di colpo avvicinato la ronda del cagnolino bianco.

Alcuni amici tra Palermo, Partinico e la Valle del Belice stanno organizzando un convegno su Danilo Dolci e la storia della partecipazione nella Sicilia occidentale. Pensavo che anche la caccia ai trans con le torce e i vetri spaccati del Pigneto fanno parte a pieno titolo della storia della partecipazione. Sono reazioni spontanee al degrado, ma anche autorganizzazione, mezzi per fare pressione sul potere, strumenti di coesione comunitaria. Per arrivare a braccare i trans e i loro clienti, prima ci sono volute assemblee e striscioni e il risultato è un canale di comunicazione aperto con le amministrazioni; e qui da noi Dario Chianelli si è proposto come possibile leader di iniziative per la legalità. Sono fenomeni molto diversi dalle risse. Parlano un linguaggio pubblico, un linguaggio immediatamente politico. Leggendo Il Contagio di Walter Siti alla luce di questi fatti riflettevo che forse la pentola scoperchiata da Siti mostra la situazione in atto un istante fa oppure, ed è anche naturale, non mostra tutto.

 

Democrazia e conflitto

Se qualcuno mi parla di concordia nazionale, ma anche con troppa insistenza di pace sociale e di interesse generale, io mi figuro tanti piccoli pogrom, gente che insegue altra gente con le torce, persone prese a calci nei parcheggi.

C’è una ragione per cui la democrazia mi ha sedotto fin da quando ho cominciato a ragionare di politica, ed erano tempi in cui rivoluzione e dittatura del proletariato avevano ancora un loro fascino. La democrazia ha la capacità di canalizzare i conflitti, non li teme, li riconduce al suo gioco e gli dà sbocco. In democrazia non è più necessario che l’avvicendamento al potere sia traumatico, con la soppressione del sovrano per via di rivoluzioni o di conflitti per la successione, né che un gruppo al potere conculchi finché può i bisogni di tutti. La democrazia mi è sempre sembrata nella sua sostanza l’unica forma di governo capace di interpretare la realtà umana, che è trasformazione e conflitto, senza promuovere carneficine. Nella democrazia spero ancora. Ma in Italia la democrazia è bloccata. L’Italia ha paura del conflitto, non lo tollera, lo ricaccia indietro contrapponendogli una città ideale di compostezza e pace, una città vuota, così quando il conflitto irrompe non c’è canale che lo tenga, è distruttivo, sanguinoso. Ci sono ragioni storiche, questo lo capisco, l’approdo dell’Italia alla democrazia sulle ceneri del fascismo non ha cancellato le contraddizioni, c’era la forza costituzionale e centrifuga del partito comunista, c’era l’erosione eversiva della destra neofascista. Per decenni le soluzione, aggregazione al centro e consociativismo, hanno alimentato il timore del conflitto, senza impedire che si insanguinassero le strade.

Io che spero nella democrazia, ho guardato con attenzione alla nascita di una destra liberale italiana, a Forza Italia che rimetteva in gioco il partito di Fini, alla possibilità dell’alternanza, al maggioritario. Mi sembrava un’occasione. Sbagliavo. I vecchi scheletri restano insepolti, la difficoltà italiana ad assorbire e a elaborare il conflitto invece di avviarsi a superamento esplode.

Il quadro a oggi, ottobre 2008. L’estromissione dal Parlamento della Sinistra radicale ha zittito del tutto fasce consistenti del paese. Non è che Rifondazione o Diliberto davvero ne raccogliessero le voci, ma erano un canale di fatto per le irrequietezze sociali, per la paura, per il dolore, per l’incertezza, perché erano gli unici disposti a coltivare, benché in modo poco lineare, il conflitto. La sofferenza sociale ora monta da sola, e il suo montare porta a esiti diversi, e nessuno di questi esiti è buono.

Lo capisco che tessere l’elogio del conflitto sociale in un momento come questo di crisi finanziaria e recessione, suona strano. Sono, questi, momenti, come la guerra, in cui la paura chiama a stringersi come le dita di una mano e chiede risposte univoche, concordia civile, soluzioni condivise, e chi azzarda una voce differente viene tacciato di disfattismo e di idiozia. Mai come in momenti come questi sembra che le soluzioni siano quelle e basta, l’interesse generale immediatamente riconoscibile. Eppure, la democrazia insegna che anche l’interesse generale va incarnato, che all’interesse generale si arriva da diverse prospettive, a partire da diverse basi sociali. Quando, più di quarant’anni fa il Centro studi di Danilo Dolci promuoveva la piena occupazione, lavorava per l’interesse generale da una particolare prospettiva. Confindustria contesterebbe che la piena occupazione sia di per sé una soluzione, e non c’è in questo niente di male. Per considerare di volta in volta uniche, indiscutibili, fatti sostanzialmente di buona amministrazione, alcune ipotesi di soluzione dei problemi, dalla cordata per la salvezza di Alitalia, agli inceneritori campani, bisogna che le cose siano precipitate nell’emergenza e che alcune premesse siano considerate acquisite, ovvie, indiscutibili. Che la prospettiva da cui si guarda sia diventata unica. Io ho l’impressione che a dispetto della contrapposizione evidente tra la destra al governo e il centro sinistra all’opposizione, ci sia nel profondo una distinzione per niente chiara quanto a basi sociali, una mancanza di dialettica reale. Da parte del centro sinistra una incapacità di interpretare il conflitto, una rinuncia più ancora che una paura. Sembra che il centro sinistra condivida con la destra la lettura del mondo, d’altra parte lo abita allo stesso modo, procurandosi influenze nelle cordate del potere economico, giocando sulla stessa articolata scacchiera. Sembra che il centro sinistra da anni sedotto dalla modernità del lavoro interinale, contenda con la destra per la sua stessa base sociale, la borghesia produttiva, gli industriali, proponendo una fragile distinzione fondata sui valori: i produttori buoni, onesti, generosi e solidali stanno con noi, i produttori cattivi e disonesti stanno dall’altra parte. Il che è pure un poco infame; e d’altra parte, come crederci? Questo spiega in parte il conflitto all’apparenza violentissimo tra governo e opposizione, e l’accordo di fatto sulle soluzioni dei problemi. È triste che il palpito residuale non solo del conflitto sociale, ma addirittura del pluralismo debba trovarsi solo nel sindacato, nella Cgil, o addirittura nelle associazioni dei piloti che fino a qualche mese fa avevamo considerato insopportabili fortini corporativi. Ma abbiamo bisogno del pluralismo come dell’aria, perciò abbiamo bisogno di loro.

Il lavoro dipendente, nelle sue forme antiche, dagli operai agli impiegati, e in quelle nuove, del precariato, del falso lavoro autonomo, le comunità degli immigrati, ma anche il disagio sociale, i disoccupati e chi è a rischio di disoccupazione. È suppergiù la base sociale storica, tradizionale della sinistra. Dovrebbe essere la base sociale che costringe a uno sforzo prospettico. A forza di darla per scontata, questa base sociale, il centro sinistra la sta perdendo, gettandola nella allegra dialettica tra Berlusconi e Alleanza Nazionale, che rischia di diventare una dialettica autosufficiente. E intanto qualcuno, tra chi vive nel disagio, non trovando ascolto né risposte, scivolerà per pesanteur verso i suoi piccoli pogrom, rifonderà la sua comunità spaccando qualche testa e approderà nelle braccia paterne e accoglienti di chi politicamente queste cose le capisce, e saprà anche frenarle, appena un poco, con dolcezza.

 

 

 

 

 

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).